L’olio del Giardino della memoria e l’olio del Giardino del Getsemani – Diocesi Ugento Santa Maria di Leuca

 
 

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Omelia nella Messa Crismale (mercoledì santo)
Chiesa Cattedrale di Ugento – 5 aprile 2023.

Cari sacerdoti, diaconi, consacrati e fedeli laici,
oggi è il giorno degli oli santi. La benedizione del sacro crisma e degli altri oli è una delle principali manifestazioni della pienezza del sacerdozio del Vescovo e un segno della stretta unione dei presbiteri con lui. È quasi epifania della Chiesa, corpo di Cristo, gerarchicamente strutturato, che nei vari ministeri e carismi esprime, per la grazia dello Spirito, i doni nuziali di Cristo alla sua sposa pellegrina nel mondo.

Il valore culturale e religioso dell’olio

L’olio, come l’aria, l’acqua, la luce, appartiene a quelle realtà elementari del cosmo che meglio esprimono i doni di Dio creatore, redentore e santificatore; è sostanza terapeutica, aromatica e conviviale: medica le ferite, profuma le membra, allieta la mensa. Questa natura dell’olio è assunta nel simbolismo biblico-liturgico ed è caricata di un particolare valore per esprimere l’unzione dello Spirito che risana, illumina, conforta, consacra e permea di doni e di carismi tutto il corpo della Chiesa.

In passato come nel presente, l’olio è simbolo della cultura mediterranea per il suo uso nella vita quotidiana, per il suo valore commerciale, per il suo impiego nelle attività lavorative.  I vari popoli sorti sulle rive del Mediterraneo hanno vissuto la loro ascesa all’ombra dell’olivo. I greci lo ritenevano “l’albero della civiltà”, poiché per godere dei suoi frutti era necessario un accurato lavoro di selezione, potatura, innesto e, infine, di lavorazione delle olive. Con la sua influenza, ha plasmato paesaggio, cultura e tradizioni.

Le inconfondibili fronde nodose e ricurve degli olivi hanno modellato il paesaggio del Mediterraneo e i loro frutti hanno offerto sostentamento a numerose civiltà, dal Medio Oriente alla Grecia, dall’Italia alla Spagna. «Due sono i liquidi particolarmente graditi al corpo umano: dentro il vino, fuori l’olio», scriveva Plinio il Vecchio nel suo celebre trattato Storia naturale. Nella cultura classica l’olivo era simbolo di pace e di vita, di forza e di vittoria: ai vincitori delle Olimpiadi venivano offerti una corona di olivo e un’ampolla d’olio. 

Gli antichi Egizi credevano che fosse stata la dea Iside a rivelare all’uomo le proprietà dell’olivo e ad insegnargli l’arte di coltivare e produrre olio. Secondo la narrazione mitica greca, fu la dea Atena a colpire la roccia con la sua lancia, facendo nascere il primo albero di olivo del mondo. Nell’Odissea si racconta che con un tronco di olivo, pianta sacra ad Atena, Ulisse accecò il ciclope Polifemo. Il mito vuole che Romolo e Remo, i due gemelli protagonisti della tradizione mitologica romana, nacquero proprio sotto un albero d’olivo. 

L’olivo e l’olio d’oliva ricoprono un ruolo importante anche nelle tre religioni monoteistiche del Mediterraneo. Nel libro della Genesi, il ramoscello d’olivo stretto nel becco della colomba segna la fine del diluvio, simboleggiando pace e rigenerazione. L’olio richiama anche il tema dell’unzione e della consacrazione al Signore. Nella liturgia cristiana è utilizzato nell’amministrazione dei sacramenti. Nel Corano, l’olivo viene definito «l’albero benedetto», «è l’albero cosmico per eccellenza, centro e pilastro del mondo, che simboleggia l’uomo universale, il profeta».

L’attuale valore civile e religioso

Nella liturgia della Messa crismale di quest’anno, richiamiamo il profondo legame tra l’olio del Giardino della memoria e l’olio del Giardino del Getsemani. Si tratta di un intreccio tra Chiesa e Istituzioni civili, comunità cristiana e comunità degli uomini, vita ecclesiale e vita sociale, pur nella distinzione tra il rito liturgico in quanto rappresentazione sacramentale nella Chiesa e il rito civile come espressione della dimensione esperienziale della società. Entrambi hanno come punto centrale di riferimento alcuni luoghi, alcune persone, un preciso significato. 

Il Giardino della memoria di Capaci è uno spazio verde vicino al luogo dove si consumò l’omicidio del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. L’olio, prodotto dall’associazione ‘Quarto Savona 15’, è nato dai frutti di quegli alberi d’ulivo, ognuno dei quali è dedicato a una persona delle Istituzioni caduta per mano della mafia. Coltivato su un luogo che è stato testimone di un’immane tragedia e ha convertito il sangue delle vittime in un segno, diventa un simbolo che assume un valore spirituale di grande importanza, un segnale di speranza e redenzione affinché il sacrificio di questi servitori dello Stato e della società civile, non sia stato inutile. 

Nel Giardino del Getsemani si è consumata l’Ora dell’’agonia di Gesù nell’orto degli ulivi. Situato su un pendio del Monte degli Olivi, esattamente tra la Valle del Cedron e la città di Gerusalemme, il giardino del Getsemani, è un luogo che letteralmente significa “frantoio”, luogo dove Gesù si recava frequentemente per pregare con i suoi discepoli (cf. Gv 18,2) e dove si verificarono gli eventi la notte precedente alla sua crocifissione (cf. Mt 25, 36-56; Mc 14, 32-52; Lc 22, 39 -53; Gv 18, 1-11). 

La passione di Gesù e la passione dell’umanità

Nel Getsemani è anticipata tutta la passione di Gesù ed è prefigurata anche la passione dell’umanità in tutti i suoi risvolti. L’autore della Lettera agli Ebrei richiamando l’evento del Getsemani, scrive: «Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito» (Eb 5,7). 

È l’ora dell’agonia che lascia Gesù «profondamente triste, fino alla morte» (Mt 26,38). «Entrato nella lotta, – scrive l’evangelista Luca – pregava più intensamente, e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadono a terra» (Lc 22,43-44). «Entrato nella lotta» (genómenos en agonía); sì, la parola greca agonía sta a indicare una lotta impegnativa. Nel nostro caso si tratta della “tristezza” dell’animo di Gesù. Per rafforzarsi in questa lotta, egli «pregava più intensamente» (ektenésteros) tanto che provocò una reazione sul suo fisico: «E il suo sudore diventò come gocce di sangue». Il termine thrómbos può significare “goccia” o “grumo” di sangue che cadeva a terra.

È l’ora della preghiera per non cadere in tentazione (cf. Mt 26.36-46; Mc 14,32-42) e della preghiera fiduciosa a Dio: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14, 32-36). Così oltre ad essere nostro modello, egli ci invita alla preghiera. «Quando Gesù prega, già ci insegna a pregare»[1].

È l’ora dell’esaudimento «per il suo pieno abbandono» al Padre e della visita dell’angelo consolatore (cf. Lc 22, 43) che porta il suo conforto a Gesù, come avvenuto per Elia che fugge da Gezabele (cf. 1Re 19,5). Dio non abbandona e, attraverso il suo angelo, si rende misteriosamente presente nell’ora suprema del dolore e della morte.

È l’ora del tradimento e dell’arresto: «Arrivò Giuda, uno dei Dodici, e con lui una folla con spade e bastoni mandata dai sommi sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani. […]. Allora gli si accostò dicendo: “Rabbì” e lo baciò.  Essi gli misero addosso le mani e lo arrestarono» (Mc 14, 43. 45-46). Con un bacio Gesù viene tradito e arrestato, mentre i discepoli lo abbandonano e fuggono.

È soprattutto l’ora della rivelazione della identità divina di Gesù (cf. Gv 18,5-6). Siamo all’apice della manifestazione di Cristo al mondo, mentre il mondo mette le mani su di lui per estrometterlo dalla faccia della terra.   

Gli eventi avvenuti nel Giardino di Getsemani sono risuonati lungo il corso dei secoli. La passione che Gesù mostrò in quella notte è stata rappresentata nella musica, nei libri e nei film. Dal XVI secolo, quando Bach scrisse due magnifici oratori musicali basati sui resoconti del Vangelo di Matteo e Giovanni, fino al giorno d’oggi, con il film “The Passion”, la storia di questa notte straordinaria è stata raccontata più volte. 

Nella preghiera di Gesù al Padre, «nella notte terribile e stupenda del Getsemani, la “terra” è diventata “cielo”; la “terra” della sua volontà umana, scossa dalla paura e dall’angoscia, è stata assunta dalla sua volontà divina, così che la volontà di Dio si è compiuta sulla terra»[2]. Avvenne così il misterioso e meraviglioso scambio. Scrive sant’Agostino: «Noi infatti non avevamo di nostro nulla da cui avere la vita, come lui nulla aveva da cui ricevere la morte. Donde lo stupefacente scambio: fece sua la nostra morte e nostra la sua vita»[3]

Il meraviglioso cambio avvenne per la benignità del Padre nei nostri riguardi. Era infatti, «ben giusto che colui, per il quale e del quale sono tutte le cose, volendo portare molti figli alla gloria, rendesse perfetto mediante la sofferenza il capo che li ha guidati alla salvezza. Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine […]. Proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (Eb 2,10-11.18).

L’olio intriso di sangue, il sangue divenuto olio

L’olio del Giardino della Memoria è intriso di sangue, il sangue del Giardino del Getsemani diventa olio che redime e salva. Quest’anno, pertanto, il rito della benedizione degli oli da una parte richiama il tragico evento di Capaci, dall’altra sottolinea il mistero del sangue di Cristo che santifica ogni realtà ed evento della storia. Dal corpo sanguinante di Cristo, si diffonde l’olio di letizia che con la sua virtù salvifica unge tutte le membra della Chiesa ed espande nel mondo il buon profumo di Cristo. Potremmo dire che il sangue innocente, versato a Capaci, si riversa nel sangue dell’Innocente per eccellenza come l’affluente confluisce nel letto del grande fiume: il fiume del sacrificio d’amore di Cristo che raccoglie in sé tutto il dolore del mondo.

Occorre però richiamare la differenza che intercorre tra il sangue dei martiri per la fede o per la libertà e la giustizia e il sangue di Cristo. Il primo ha un valore esemplare, il secondo ha un valore redentivo. Nel primo caso il sangue versato si propone come esempio di vita da ammirare e da imitare. Nel secondo caso, il sangue versato da Cristo durate la sua passione e morte redime il mondo da ogni male e da ogni peccato. Elimina alla radice il male del mondo e dona all’uomo una nuova innocenza. È un sangue da adorare e da invocare perché scenda copioso su di noi e, come acqua purissima, ci purifichi da ogni colpa e da ogni peccato. Sant’Agostino scrive: «Anche se i fratelli arrivano a dare la vita per i fratelli, il sangue di un martire non viene sparso per la remissione dei peccati dei fratelli, cosa che invece egli ha fatto per noi. E con questo ci ha dato non un esempio da imitare, ma un dono di cui essergli grati. I martiri dunque, in quanto versarono il loro sangue per i fratelli, hanno ricambiato solo quanto hanno ricevuto dalla mensa del Signore. Manteniamoci sulla loro scia e amiamoci gli uni gli altri, come Cristo ha amato noi, dando se stesso per noi»[4].

Nell’Adoro te, uno dei cinque inni eucaristici composti per la liturgia del Corpus Domini composto nel 1264, san Tommaso d’Aquino esalta l’azione purificatrice del sangue di Cristo, il mistico pellicano in questi termini: «Pie pelicane, Jesu Domine / me immundum munda tuo sanguine / cuius una stilla salvum facere totum mundum quit ab omni scelere (Pellicano pieno di bontà, Signore Gesù, / lava le mie colpe col tuo sangue / di cui una stilla sola basta a rendermi tutto puro da ogni peccato). 

Il sacrificio di Cristo è, nello stesso tempo, sacrificio terreno e celeste, presente ed eterno, sacrificio compiuto una volta per tutte che, ogni volta, esplica la sua virtus salvifica. «Egli – proclama san Giovanni Fisher – immolò il sacrificio dapprima qui sulla terra, quando sopportò una morte acerbissima, e poi quando, rivestito con l’abito nuovo della immortalità, entrò con il proprio sangue nel santuario, cioè in cielo. Qui presentò davanti al trono del Padre celeste quel sangue d’immenso valore che aveva versato a profusione per tutti gli uomini schiavi del peccato. Questo sacrificio è così gradito e accetto a Dio, che egli non può fare a meno – non appena lo guarda – di avere pietà di noi e di donare la sua misericordia a tutti quelli che veramente si pentono. Inoltre è un sacrificio eterno. Esso viene offerto non soltanto ogni anno, come avveniva per i Giudei, ma ogni giorno per nostra consolazione, anzi, in ogni ora e momento, perché ne abbiamo un fortissimo aiuto […]. Di questo santo ed eterno sacrificio divengono partecipi tutti coloro che sono veramente contriti e fanno penitenza dei peccati commessi, e che sono fermamente decisi a non riprendere più i loro vizi, ma a perseverare con costanza nella ricerca della virtù»[5].

Il sacerdote agisce in persona Christi capitis

Se con la morte in croce, Cristo redime il mondo una volta per tutte (redenzione oggettiva), in virtù della sua ascensione al cielo rende attuale e presente nel tempo il valore immenso della sua opera redentiva (redenzione soggettiva). Ogni uomo riceve così il dono della salvezza realizzata da Cristo, costituito sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedek. 

Con la sua ascensione, Cristo inaugura l’eternità del suo sacerdozio. Se, infatti, fosse «sulla terra, egli non sarebbe neppure sacerdote» (Eb 8, 4). Da qui la grandezza della dignità sacerdotale in quanto il sacerdote rappresenta Cristo crocifisso e glorificato. Ogni sacerdote partecipa dell’unico sacerdozio diventando il “rappresentante” di Cristo, vero ed unico sacerdote. Lo rappresenta però non nel senso che riceve una delega per parlare e agire al suo posto, quasi egli fosse assente dall’azione concreta. Nella Chiesa Cristo non è mai assente, la Chiesa è il suo corpo vivo e il Capo della Chiesa è lui, presente ed operante in essa. 

Il sacerdote agisce in persona Christi capitis non in nome di un assente, ma nella persona stessa di Cristo Risorto, che si rende presente con la sua azione realmente efficace. Cristo agisce realmente attraverso l’azione compiuta dal sacerdote. Questi esercita il suo ministero attraverso i tria munera (munus docendi, sanctificandi, regendi) rendendo presenti e attuali le tre azioni del Cristo risorto e glorioso. Mella sua qualità di sommo ed eterno sacerdote (cf. Eb 5,1-10; 7,24; 9,11-28) e di Pastore supremo (cf. 1Pt 5,4), Cristo, presente sacramentalmente e realmente, insegna, santifica, guida la comunità dei suoi discepoli. 

Cari sacerdoti, nel nostro tempo particolarmente importante risulta il munus docendi. Viviamo in una grande confusione circa le scelte fondamentali della nostra vita e gli interrogativi su che cosa sia il mondo, da dove viene, dove andiamo, che cosa dobbiamo fare per compiere il bene, come dobbiamo vivere, quali sono i valori realmente pertinenti. In relazione a tutto questo esistono tante filosofie contrastanti, che nascono e scompaiono, creando una confusione circa le decisioni fondamentali. Non sappiamo più da che cosa e per che cosa siamo fatti e dove andiamo. 

Il sacerdote non deve insegnare proprie idee, una filosofia che lui stesso ha inventato; non parla da sé, non parla per sé, per crearsi ammiratori o un proprio gruppo di seguaci; non dice sue invenzioni, ma, nella confusione di tutte le filosofie, insegna in nome di Cristo, propone la verità che è Cristo stesso, annuncia la sua parola e rende presente il suo modo di vivere e di relazionarsi con Dio e con gli uomini. 

Il sacerdote deve identificarsi con Cristo e, in questo modo, la sua parola, che in realtà non è sua, diventa parola profondamente personale. Sant’Agostino, parlando dei sacerdoti, afferma: «E noi che cosa siamo? Ministri (di Cristo), suoi servitori; perché quanto distribuiamo a voi non è cosa nostra, ma lo tiriamo fuori dalla sua dispensa. E anche noi viviamo di essa, perché siamo servi come voi»[6]. Ed ancora: «Uniti nella medesima carità siamo tutti uditori di colui che è per noi nel cielo l’unico Maestro»[7].

Si realizzerà così la profezia proclamata solennemente da Cristo stesso. Si avvera, nel tempo, l’avvenimento escatologico che in lui e uniti a lui si formi un solo «gregge e un solo pastore» (Gv 10,16). Non vi è un altro mediatore, non vi è altra grazia e altra salvezza che non sia quella di Gesù Cristo. «In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati» (At 4,12). Il suo sacrifico elimina ogni divisione e discordia e ricostituisce l’unità del genere umano. 

Al suo sacrificio partecipano tutti i giusti della terra. Con la loro testimonianza essi si fanno promotori di giustizia e di pace. A questa testimonianza siamo chiamati anche noi. Partecipi dell’unico sacerdozio di Cristo, come battezzati e come ministri ordinati annunziamo con la nostra vita il suo regno d’amore e di fraternità. 


[1] Catechismo della Chiesa Cattolica, 2607.

[2] Benedetto XVI, Udienza generale, 1° febbraio 2012.

[3] Agostino, Discorso Guelf. 3, “Gloriamoci anche noi della croce del Signore”.

[4] Agostino, Trattati su Giovanni, 84,2.

[5] Giovanni Fisher, Commento ai salmi (Sal 129)Opera omnia, ed. 1579; p. 1610.

[6] Agostino, Discorso, 229/E, 4.

[7] Id, Commento sui salmi, 131, 1, 7.

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