Sant’Antonio, insigne predicatore e patrono dei poveri e dei sofferenti – Diocesi Ugento Santa Maria di Leuca

 
 

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Omelia nella solennità di S. Antonio di Padova
Parrocchia S. Antonio, Tricase, 13 giugno 2022

Cari fratelli e sorelle,

celebrare il santo patrono è per la comunità cristiana un invito ad attingere dal suo modello di vita, ad accoglierlo come compagno del cammino di fede, a invocarlo come difensore e protettore dei deboli. Il carisma specifico di sant’Antonio, come abbiamo pregato nella Colletta, è stato quello di essere «un insigne predicatore e un patrono dei poveri e dei sofferenti».

La sua vita è già una predica

Primo di essere invocato come taumaturgo, sant’Antonio deve essere considerato come un insigne predicatore e annunciatore della parola di Dio. Ripercorrendo la sua vita, emerge questo dato fondamentale. Nato a Lisbona nel 1195, sant’Antonio morì a Padova all’età di soli 36 anni, il 13 giugno 1231. Appena ad un anno dalla morte, Papa Gregorio IX lo canonizzò. Lo stesso Papa, quattro anni prima, il 16 luglio 1228, aveva iscritto nell’albo dei santi san Francesco d’Assisi. Nel 1263, san Bonaventura fece la ricognizione dei suoi resti mortali, e trovò la lingua intatta. Papa Pio XII, nel 1946, lo dichiarò Dottore della Chiesa. 

La sua vocazione nasce e si sviluppa all’insegna del martirio e della testimonianza della povertà. Dopo l’uccisione dei cinque protomartiri francescani in Marocco, Antonio chiese ed ottenne di imbarcarsi per l’Africa, ma appena giunto contrasse la malaria e fu costretto a tornare. Prese parte al famoso Capitolo delle stuoie convocato da san Francesco. Stette in silenzio per tanto tempo, sembrava che sapesse solo scodellare e fare qualche cosa in cucina. Un giorno, venuto a mancare un predicatore, fu invitato a predicare. Fu allora che tutti conobbero la sua sapienza. Da quel momento, Antonio di Padova andò da un paese all’altro annunciando la Parola di Dio. Per questo san Francesco lo chiamava “mio vescovo”. 

Giunto a Padova nell’ultimo anno della sua vita (1231), la sua azione fu decisiva per la riconciliazione e la rinascita che segnò la rifondazione cristiana di Padova. Predicò la Quaresima, con insegnamento quotidiano ininterrotto di cui si ha memoria nella Chiesa d’Occidente, un’innovazione destinata ad avere uno sviluppo grandioso nei secoli successivi. In realtà, fu la sua vita una grande predica. Per questo scrisse: «La predica è efficace, ha una sua eloquenza, quando parlano le opere. Cessino, ve ne prego, le parole, parlino le opere»[1].  Non si può comprendere la Parola senza viverla perché non è una lezione accademica. Solo l’amore vissuto ci aiuta a comprendere il Vangelo. Allora la parola ascoltata con devozione diventa una sorgente e dal suo grembo sgorgano fiumi di acqua viva.

Il nesso inscindibile di carità-verità

Nel carisma concesso dallo Spirito ad Antonio brilla l’inscindibile nesso tra carità e verità. In una famosa predica, don Tonno Bello descrisse sant’Antonio come un aristocratico del pensiero che, colpito dall’esempio dei quattro martiri francescani sbarcati dal Marocco, si sentì travolgere dalla sapienza di Dio. Antonio ebbe anche una particolare predilezione per i poveri. Prima ancora che dalla povertà di beni economici e di potere politico, fu colpito dalla povertà del suo tempo circa il senso della vita e il destino dell’uomo. E per combattere questa forma di povertà impiegò attivamente l’ultimo decennio della sua vita, impegnandosi in un dialogo robusto per dar ragione del pensiero di Cristo ai suoi interlocutori. 

Il compito fondamentale: «realizzare di nuovo il giorno di Pentecoste…»[2]

Un altro aspetto della sua testimonianza fu quello di portare nel mondo lo spirito della riconciliazione e della pace. Messaggio particolarmente significativo oggi. Viviamo infatti nella Babele del mondo. Finiamo per parlare da soli, per parlare sopra gli altri, per non ascoltare nessuno, per sapere così poco parlare assieme. Diventa così difficile, se non impossibile, capirsi. Quando gli uomini non si comprendono tra di loro facilmente crescono la violenza e la guerra. Il male è un istinto che approfitta dell’assenza dell’amore, per armare i pensieri e le mani, far vedere il prossimo come un concorrente pericoloso o un nemico. Nella tragedia della guerra in Ucraina riviviamo tutti i frutti del male, che abbiamo fatto crescere in questo tempo. Tutta la creazione geme interiormente. L’amore e la compassione ci fa sentire nostra quella sofferenza.

Il contrario di Babele è la Pentecoste, lo Spirito di Dio che scende nei cuori degli uomini e li accende con il suo amore. La forza dello Spirito è amore multiforme. Lo Spirito apre, non chiude; unisce senza confondere, distingue senza dividere. È un fuoco che infiamma e illumina, brucia la paura e l’orgoglio, scalda ciò che è freddo e piega ciò che è rigido. Diceva S. Antonio: «La prima pace devi averla con il prossimo, la seconda con te stesso e così avrai anche la terza pace, quella con Dio». E aggiungeva: «Si dice degli elefanti che quando devono affrontare un combattimento hanno una cura particolare dei feriti: infatti li chiudono al centro del loro gruppo insieme con i più deboli. Così anche tu accogli nel centro della carità il prossimo debole e ferito».

«… nella perfezione dei cinque sensi e nell’osservanza del decalogo»[3].

Sant’Antonio riprese anche l’antica pratica della lettura della Parola secondo i quattro sensi, un principio che nasce all’interno dell’ebraismo, viene ripreso dai Padri della Chiesa e si sviluppa nel Medioevo. Caduto parzialmente in disuso nell’età moderna, ha conosciuto un rinnovato interesse nel nostro tempo. Nella tradizione ebraica, questa quadruplice forma di ermeneutica biblica prevedeva la distinzione di quattro significati nei testi biblici: letterale, allusivo, omiletico e mistico. La tradizione patristica definì questi quattro livelli in questi termini: letterale, allegorico, tropologico (o morale) e anagogico.

Occorre dunque imparare a leggere la Scrittura secondo questa stratificazione. Questo esercizio alimenterà la spiritualità dei cinque sensi. Il vero credente, infatti, cammina per fede «come se vedesse colui che è invisibile» (Eb 11,27), ode e ascolta perché «chi è da Dio ascolta le parole di Dio» (Gv 8,47), sa apprezzare il «profumo di odore soave» del sacrificio di Cristo (cfr. Ef 5,2), sa gustare «che il Signore è buono» (cfr. 1Pt 2,2,3), tocca con mano la salvezza, «maneggiando rettamente la parola della verità»(2Tm 2,15).  

Una vera esperienza di Cristo consiste nell’esercizio dei cinque sensi spirituali. Lo attesta in modo evidente l’apostolo Giovanni quando scrive: «Quel che abbiamo udito, quel che abbiamo visto con i nostri occhi, quel che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato della parola della vita (poiché la vita è stata manifestata e noi l’abbiamo vista e ne rendiamo testimonianza, e vi annunziamo la vita eterna che era presso il Padre e che ci fu manifestata), quel che abbiamo visto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché voi pure siate in comunione con noi» (1Gv 1,1-4).

Anche Origene, teologo e scrittore greco del III secolo, illustra le potenzialità dei nostri sensi sèpirituali: «La vista che può fissare le realtà superiori […] l’udito, che percepisce dei suoni che non si trovano realmente nell’aria; il gusto che ci fa assaporare il pane vivo disceso dal cielo […] allo stesso modo quei profumi di cui parla Paolo, che sono “per Dio buon odore di Cristo”; il tatto, grazie al quale Giovanni afferma di aver toccato le mani del verbo della vita»[4]

Dobbiamo, dunque, partecipare alla preghiera anche con nostri sensi spirituali perché si tratta di incontrare Dio che «non è Dio dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui» (Lc 20, 38). Solo gli idoli «hanno la bocca, e non parlano, gli occhi e non vedono. Hanno orecchi, e non ascoltano, naso e non sentono odori. Le loro mani non toccano, i loro piedi non camminano, la loro gola è senza voce» (Sal 115, 5-7)

Infine sant’Antonio chiede che il cristiano si disponga ad osservare i comandamenti del Signore (Dt13,4; Gv 14, 15-26) perché solo chi osserva i comandamenti rimane nell’amore del Signore (cfr. Gv 15, 10). Anche sotto questo aspetto, sant’Antonio è un modello di vita. L’amore verso Dio e fratelli bruciò la sua breve e intensissima esistenza e, come narrano anche gli antichi biografi, egli «morì per sfinimento di eccesso di lavoro e per scarso nutrimento e riposo». In definitiva, l’ansia missionaria nell’annunciare il Vangelo e la cura dei poveri è il messaggio che sant’Antonio ci trasmette come una prerogativa del vivere cristiano, valida non solo ai suoi tempi, ma anche ai nostri. Veneriamo la sua santità e imitiamone l’esempio.


[1] Antonio di Padova, Discorso, I, 226.

[2] Ivi.

[3] Ivi.

[4] Origene, Contro Celso, 1,48.

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