30° anniversario della morte del Venerabile Antonio Bello: omelia del Card. Zuppi

 
 

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Sento tanta emozione e gioia nel presiedere l’Eucarestia in questa Cattedrale. I luoghi aiutano a comprendere la storia e le persone. La presenza permette e spiega il remoto. Queste mura antiche ci trasmettono ancora la voce del venerabile don Tonino Bello, non scontata e per nulla “paludata”, nutrita dalla Parola di Dio tanto che ciascuno sentiva quelle parole indirizzate quasi intimamente alla propria coscienza. Trenta anni. Come non commuoverci a ripensare al suo volto scavato e sofferente eppure luminoso e trasfigurato dall’amore in occasione del suo viaggio a Sarajevo, seme di pace e per certi versi suo testamento di amore? Ma anche come anche non provare la sua inquietudine che lo portava a non accettare l’inedia ma a seminare comunque pace, pensando che trenta anni dopo viviamo oggi scenari ancora peggiori nella drammatica guerra che si combatte in Ucraina e negli altri pezzi che tutti ci commuovono e impongono una scelta? Don Tonino lo faceva “avendo in corpo l’occhio del povero” ovvero delle vittime. Cambia tutto se guardiamo il mondo e noi stessi con questo occhio, che è quello di Cristo. “La pace più che un vocabolo è un vocabolario”, diceva, ricordando che il fiume della pace si nutre di affluenti e sfocia in estuari che hanno nomi impegnativi e profondi come disarmo, economia di giustizia, salvaguardia del creato, legalità e democrazia, diritti umani, nonviolenza, partecipazione, rispetto delle persone, beni comuni. Non nascondo che provo anche la necessità di chiedere perdono a don Tonino. Lo so. Lui per primo si schernirebbe e si metterebbe lui per primo a farlo per sè. Perdono perché abbiamo frainteso la sua voce evangelica, esigente come è il Vangelo che chiede amore vero e non surrogati; che coinvolge tutto non quello che avanza o finché mi va; amore sporco della vita e anche del nostro peccato, ma amore senza furbizie, calcoli, ecclesiasticismi, strumentalità, ideologie. Don Tonino: tu non avevi paura di essere strumentalizzato perché libero come chi è pieno di Cristo, tanto che chi ci provava a farlo finiva per seguirti. Caro Tonino, qualche volta la tua voce l’abbiamo accolta con fastidio o sufficienza, con paternalistica commiserazione come se fossero tue intemperanze, esagerazioni utili per qualche azione dimostrativa ma non scelte che coinvolgevano la Chiesa, di campo, di prospettiva, che coinvolgevano tutti e tutta la comunità. Tutti salvavamo il buon cuore ma spesso bollandolo di ingenuità o troppo di parte. Non facevi sconti e ricordavi che l’amore per Dio e per il nostro fratello più piccolo sono la stessa cosa e che se manca uno manca anche l’altro. Un’ultima richiesta di perdono, come si deve fare tra uomini veri come tu ci hai insegnato ad essere: quado imitiamo la tua parola senza viverla, la svuotiamo rendendola verbalismi compiaciuti, mentre per te era fare parlare la vita e in questa scorgere il volto di Cristo, quello che cercavi con profonda sete d’amore davanti al tabernacolo e nell’eucarestia e che riconoscevi nel volto dei tuoi, suoi, nostri piccoli. Ci hai messo in guardia da introdurre il grembiule nell’armadio dei ‘paramenti sacri’, per comprendere che “stola e grembiule sono il diritto e il rovescio di un unico simbolo sacerdotale”. Non componevi frasi ad effetto ma descrivevi la poesia di amore della vita da mistico che penetrava la realtà, divorato dall’amore per Dio e per il tuo prossimo che volevi fosse anche il nostro. Davi fastidio e purtroppo il problema diventava la tua voce e non il nostro fastidio! Ecco perché ti chiedo perdono.

 

Abbiamo ascoltato Pietro che con chiarezza evangelica proclama: “Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini” (cfr. At 5,29). Chi obbedisce a Dio è libero dalla mentalità comune, dal vero pensiero unico che è l’individualismo tale da non obbedire che solo al proprio io. Chi piega le ginocchia per pregare le piega per servire e mai per ripiegarsi su sé stesso! Chi obbedisce a Dio in realtà ama gli uomini con la passione della misericordia di andare a cercare l’ultima pecora perduta e di correre incontro al figlio che torna. Non obbedisce a Dio il fratello maggiore! Chi obbedisce a Dio sta alla larga, come ammoniva don Tonino dal Potere, dal Prestigio e dai Prodigi. Tre parole chiave, il contrario di quelle che hanno guidato la sua vita: Preghiera, Poveri e Pace. Pietro annuncia il cuore del messaggio cristiano: Gesù umiliato e ucciso (abbassato) sulla croce è stato risuscitato (innalzato) da Dio. In lui c’è salvezza! Lui è la salvezza! È pieno di Spirito, donato da Dio a quelli che gli obbediscono. «Tutta la Chiesa, quindi, grondante di Crisma, è un popolo di Profeti. Di annunciatori. Di evangelisti. Di scaricatori di speranze. Di portatori di lieti annunci. Di custodi di una parola esplosiva, che non può essere “trattata”, controllata, disinnescata, addormentata dalle astuzie umane. La Chiesa è un popolo di profeti, non di pavidi, di ritualisti, di reazionari, di preoccupati che la Parola possa rivoltarsi come un boomerang anche contro chi la pronuncia» (Scritti, vol. II, p. 26-27). Era la sua personale parresia, come disse, «stile di chi, in piedi, a faccia alta pur senza protervia, parla apertamente e con piena libertà di linguaggio del suo incontro con Dio, alla cui Parola si sente ormai irrevocabilmente consacrato» (Scritti, vol. II, p. 160). È possibile solo a chi obbedisce a Dio e per questo ama gli uomini con la libertà dell’amore. Diceva: «Senza peli sulla lingua, cioè. Senza smorzare le finali, per amore di quieto vivere. Senza mettere la sordina alla forza prorompente della verità. Senza decurtare la Parola, per non recare dispiacere a qualcuno.» (Scritti, vol. V, p. 131). E in un’altra occasione, proprio riferendosi a Pietro che parla insieme agli Undici, afferma: «Questa è la parresia: alzarsi in pedi, avere il coraggio di parlare, insieme con gli altri, non come battitori liberi […]. Il coraggio consiste soprattutto nel coinvolgere gli altri a parlare» (Scritti, IV, p. 65). La parresia è tutt’altra cosa che gonfiare le parole con la retorica, è il contrario del dichiarazionismo o del protagonismo. È intimamente legata alla comunione. Don Tonino aveva il gusto della comunione. Per lui le parole “camminare” e “insieme” erano inseparabili e rendevano ragione l’una all’altra: non c’era altro modo di camminare se non insieme e non c’era altro motivo di stare insieme se non per camminare. La Chiesa non è fatta per essere stanziale, per chiudersi nell’auto contemplazione, ma per camminare nelle strade degli uomini. Se restiamo stanziali finiamo inevitabilmente per discutere su chi è più grande e il servizio diventa considerazione personale e non dare considerazione al prossimo! La Chiesa non è un’agenzia di beneficenza, una Organizzazione non Governativa (Ong), ma il Corpo di Cristo, un soggetto che è costituito, nelle sue membra, dai poveri, potremmo dire in gran parte – poveri che non sono da intendere solo in senso materiale, ma anche morale e spirituale – e li aiuta a entrare nel mistero di Cristo”. Don Tonino ha prefigurato una chiesa sinodale tant’è che la sua prima lettera pastorale fu il frutto di una scrittura collettiva in cui tutte le presenze della comunità furono invitate a ripensarsi e a riscriversi: “Insieme alla sequela di Cristo sul passo degli ultimi”. Uscire non perché hai tutte le sicurezze, ma solo perché hai Cristo e perché, come spiegò Paolo VI del Concilio, l’antica storia del Samaritano è il paradigma della spiritualità che porta a guardare con simpatia immensa i bisogni umani. L’antica storia del Samaritano (cfr. Lc 10,25-37) è stata il paradigma della spiritualità di don Tonino Bello. È stato un cultore dell’uomo, senza alcun riduzionismo antropologico, perché era un uomo, un vescovo, tutto centrato su Gesù Cristo e sul suo vangelo. È la grande lezione di don Tonino, che non ha smesso di affidarsi allo spirito di Dio. Don Tonino ha sempre invitato ad avere uno sguardo “dal cielo”, quello che permette di chiamare “fratello” quello che per gli altri era solo Massimo, un ladro; a definire “basilica minore” Giuseppe che per tutti era l’ubriaco; a chiedere perdono al fratello marocchino, rappresentante di tutti gli immigrati che il nostro perbenismo non riesce ad accogliere.  Questa sera il ritornello del Salmo responsoriale ci ha fatto pregare così: «Ascolta, Signore, il grido del povero». Sembra il rovescio della medaglia del motto episcopale di don Tonino: «Ascoltino i poveri e si rallegrino». Teneva lo sguardo fisso su Gesù, lì dove Dio e l’uomo si sono incontrati nell’orizzonte della salvezza. Grazie don Tonino, fratello vescovo: benedici ancora una volta questa Chiesa che ti ha avuto come pastore intelligente e guida appassionata e che tu hai amato fino alla fine. E benedici, ti preghiamo, ogni seme di bene, ogni anelito di pace, ogni scheggia di speranza nascosti nel cuore di ciascuno di noi, in questo tempo di tanta oscurità donaci di essere scintille di amore e di luce, che trasfigurane le ferite. Nella domenica prima di morire, dettando il suo testamento spirituale, diceva: «È il giorno del Signore. Ed è bellissimo». Grazie perché ha vissuto e ci continui ad insegnare a vivere questa bellezza, tutta umana e tutta di Dio che senza misura ci dona lo Spirito e dà in mano ogni cosa a chi lo cerca.

 

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