Glorificare Dio, Padre di Gesù Cristo, con un solo cuore e una sola voce – Diocesi Ugento Santa Maria di Leuca

 
 

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Omelia nella Messa della II domenica di Avvento – XII anniversario di ordinazione episcopale
Chiesa Cattedrale di Ugento, 4 dicembre 2022.

Cari fratelli e sorelle,
in questa liturgia della seconda domenica di avvento, celebrando il dodicesimo anniversario della mia ordinazione episcopale, sia invitati dall’apostolo Paolo a glorificare Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, con un solo cuore e una sola voce (cfr. Rm 15,6). Il ministero che ho vissuto in questi anni è stato un tempo di grazia per me e per voi. E di questo dobbiamo rendere lode al Signore.

In laudem gloriae

Rinnovo il mio desiderio di vivere, secondo l’espressione della Lettera agli Efesini, «in laudem gloriae» (Ef 1,3-14). Questa sintetica e densissima formula ritorna tre volte nell’inno quasi come un ritornello, anche se con lievi varianti (vv. 6a.12a.14c) e indica la risposta della Chiesa, che faccio mia, all’azione di salvezza compiuta da Dio in Cristo Gesù. È la risposta all’elezione (vv. 4-6), alla redenzione (vv. 7-12), alla destinazione a ricevere l’eredità eterna per l’azione dello Spirito (vv. 13-14).

Vivere «a lode della gloria» è la dimensione costitutiva di ogni cristiano e, a maggior ragione, del ministro ordinato.  Vuol dire ricentrare ogni azione e ogni desiderio per esaltare la grandezza del Signore nel suo agire nella storia. La gloria di Dio, che rifulge pienamente sul volto di Cristo (cfr. 2Cor 4,6), è la traccia del suo passaggio come creatore e salvatore degli uomini, il luogo privilegiato della sua presenza nella quotidianità degli incontri e delle relazioni. Essere “lode di gloria” significa riconoscere che si tratta di «gloria della sua grazia» (Ef 1,6), ossia di un dono che ci assimila progressivamente a sé e ci fa vivere nella forma eucaristica e nel rendimento di grazie (cfr. Col 3,15) per esercitarci a cantare la lode che non ha fine. Ciò che lodiamo e adoriamo, infatti, è anche la meta verso cui tendiamo.

Il dono e l’arte della paternità 

Se l’ordinazione episcopale è una celebrazione nuziale, l’esercizio del ministero è espressione dell’amore sponsale: amore ricevuto e donato, oblativo e trasformativo, sponsale e genitoriale. Rendo grazie al Signore per avermi aiutato a sperimentare il dono e l’arte della paternità.

Innanzitutto il dono. L’ordinazione episcopale configura l’eletto a “immagine del Padre”.  Secondo sant’Ignazio di Antiochia, Dio Padre è come il Vescovo invisibile, il Vescovo di tutti. Ogni Vescovo, pertanto, tiene il posto del Padre di Gesù Cristo e in virtù di questa rappresentanza, viene da tutti riverito[1]. Specialmente nella tradizione della Chiesa dell’Oriente, la cattedra episcopale, che richiama l’autorità paterna di Dio, può essere occupata soltanto dal Vescovo. Da questo riferimento simbolico, deriva per ogni Vescovo il dovere di prendersi cura con amore paterno del popolo santo di Dio e di guidarlo, insieme con i presbiteri e i diaconi, sulla via della salvezza[2]. Di conseguenza, un antico testo, ammonisce i fedeli ad amare il Vescovo in quanto padre e madre[3]. Probabilmente deriva da questa visione l’uso, diffuso in alcune culture, di baciare la mano del Vescovo come quella del Padre amorevole, dispensatore di vita.

Il dono ricevuto deve essere messo a frutto. Posso dire che in questi anni ho cercato di imparare la difficile e gioiosa arte della paternità spirituale. Non nascondo che, alcune volte, ho avuto davanti alla mia mente la figura di san Giuseppe, giustamente definito «ombra del Padre celeste». Se la comunione con Cristo è il presupposto fondamentale del ministero episcopale, l’esercizio della paternità spirituale è la concreta disposizione per far fruttificare la grazia ricevuta a beneficio del popolo santo di Dio. L’apostolo Paolo infatti scrive: «Sapete anche che, come fa un padre verso i propri figli, abbiamo esortato ciascuno di voi, incoraggiandovi e scongiurandovi a comportarvi in maniera degna di quel Dio che vi chiama al suo regno e alla sua gloria» (1Ts 2,11-12).

Il compito di curare, vigilare e custodire il popolo santo di Dio

La paternità spirituale del Vescovo, essenza del suo ufficio pastorale e del suo magistero, si esprime nel compito di prendersi cura e di vigilare sul gregge che gli è stato affidato. Come un buon padre di famiglia, il Vescovo è il ‘padre di tutti”: un padre che ama, conosce e accoglie tutti i suoi figli, li chiama per nome, non li abbandona mai e si mette al loro servizio. È padre di tutti (cfr. 1Cor 9, 19) in quanto si fa tutto a tutti per salvare ad ogni costo qualcuno (cfr. 1Cor 9, 22) con la saggezza della parola, la discrezione del silenzio, l’esempio della vita. «La guida delle anime – ammonisce san Gregorio Magno – sia discreta nel suo silenzio e utile con la sua parola affinché non dica ciò che bisogna tacere e non taccia ciò che occorre dire. Giacché come un parlare incauto trascina nell’errore, così un silenzio senza discrezione lascia nell’errore coloro che avrebbero potuto essere ammaestrati»[4].

A tal proposito è significativa l’immagine della veste sacerdotale che Dio ordina a Mosè di tessere per suo fratello Aronne: «Farai sul suo lembo melagrane di porpora viola, di porpora rossa e di scarlatto, intorno al suo lembo, e in mezzo porrai sonagli d’oro» (Es 28, 33-34). Secondo l’interpretazione di Gregorio Magno i campanelli rappresentano l’unità tra la parola e le opere del sacerdote nell’esercizio del suo ministero pastorale, mentre le melagrane indicano l’unità della fede: «Infatti, come nelle melagrane i molti grani dell’interno sono protetti da un’unica buccia esterna, così l’unità della fede protegge tutti insieme gli innumerevoli popoli che costituiscono la santa Chiesa e che si distinguono all’interno per la diversità dei meriti»[5]

Il Vescovo è il garante della fede di tutti e, come l’apostolo Pietro, deve confermare i fratelli nella fede (cfr. Lc 22, 31-32) mantenendo l’unità della fede e superando ogni tentazione di raggruppamento, di separazione, di divisione e di frammentazione. Il servizio pastorale mirante all’edificazione della Chiesa scaturisce dalla preghiera e dalla meditazione della Parola di Dio.  Secondo sant’Ireno, «come il sole […] è in tutto il mondo uno solo e il medesimo, così la luce spirituale, il messaggio della verità, dappertutto risplende e illumina tutti gli uomini che vogliono giungere alla conoscenza della verità»[6]. Si tratta di un atteggiamento interiore, che porta a non perdere mai di vista gli altri, valutando di volta in volta quando ritrarsi e quando farsi prossimi, ma sempre mantenendo un cuore vigilante, attento e orante. Il vero pastore non pone al centro sé stesso e le proprie idee, ma il bene di coloro che è chiamato a custodire, evitando le opposte tentazioni del dominio e della noncuranza. 

La duplice arte del pastore

Il compito di custodire e di confermare nella fede i tutti i membri della Chiesa richiede la duplice arte dell’ammonimento e della mediazione. Innanzitutto, è necessario l’esercizio dell’arte dell’ammonimento. San Gregorio Magno sottolinea che «nell’arte della predicazione bisogna osservare una grande diversità di modi in riferimento alle persone e alle circostanze della vita […]. Deve essere diverso il modo di ammonire gli uomini e le donne poiché agli uni bisogna imporre obblighi più gravi affinché gravi doveri li rendano sempre operanti nell’esercizio del bene; alle altre invece bisogna imporre pesi più leggeri che le convertano come accarezzandole. Diverso deve essere il modo di ammonire i giovani e i vecchi poiché è la severità dell’ammonizione che per lo più guida i primi nel loro progresso mentre è un’amorevole preghiera che dispone i secondi a un agire migliore»[7]

Indispensabile è anche l’arte della mediazione. Il ministero del Vescovo, infatti, non si esaurisce nell’ambito strettamente ecclesiale. Il Vangelo è per tutta l’umanità. Egli ha la responsabilità di diffonderlo nel mondo e di continuare senza sosta ad annunciare la Parola che salva a tutti gli uomini. Il Vescovo, araldo e testimone di Gesù Cristo, è anello di congiunzione della dimensione cattolica e apostolica della Chiesa particolare ed è responsabile relativamente a questioni che riguardano la vita pubblica. Come Mosè, egli deve intercedere per tutti gli uomini. Per questo san Gregorio Magno esorta: «La guida delle anime sia vicino a ciascuno con la compassione e sia più di tutti dedito alla contemplazione, per assumere in sé, con le sue viscere di misericordia, la debolezza degli altri, e insieme, per andare oltre se stesso nell’aspirazione delle realtà invisibili, con l’altezza della contemplazione […] Mosè entra ed esce tanto frequentemente dal Tabernacolo: dentro, è rapito dalla contemplazione; fuori, è pressato dalle necessità di creature inferme. Dentro, medita i misteri di Dio; fuori, porta i pesi delle realtà carnali»[8]

Medico cura te stesso!

La cura pastorale può rendere il Vescovo attento a mille problemi, ma con un cuore diviso, che gli impedisce di concentrarsi e considerare il motivo di ogni singola azione. Ignorare se stessi può essere il prezzo pagato alle sollecitudini esteriori. Si pensa a tutto, fuorché a vivificare la propria anima! Questa, dedita più del dovuto all’attività esterna, diventa come un viaggiatore che a forza di pensare alle necessità del viaggio, dimentica persino la méta cui è diretto. Molti progetti attuati possono destare la meraviglia e l’ammirazione dei fedeli, ma possono rendere l’anima orgogliosa e insensibile. Bisogna, dunque, che il Vescovo ricordi che solo Dio è il vero giudice ed egli vede e scruta la profondità del cuore e dell’anima[9]. Pertanto il Vescovo non deve perdere l’abitudine ad esaminarsi attentamente nel silenzio e nella preghiera. Per questo mentre vi ringrazio per il bene che sempre avete manifestato nei miei riguardi, vi chiedo di continuare a pregare per me perché insieme possiamo compiere ogni cosa in laudem gloriae


[1] Cfr.Ignazio di Antiochia, Ai Magnesiani, 6, 1: PG 5, 764; Ai Tralliani, 3, 1: PG 5, 780; Agli Smirnesi, 8, 1: PG 5, 852.

[2] Cfr. Pontificale Romano, Rito dell’Ordinazione del Vescovo: Impegni dell’eletto.

[3] Cfr. Didascalia Apostolorum II, 33, 1.

[4] Gregorio Magno, Regola pastorale,II, 4, pp.71.

[5] Ivi, II, 4, p. 74.

[6] Ireneo, Adv. haer. I, 10,2.

[7] Gregorio Magno, Regola pastorale, III, 1, pp. 112ss

[8] Ivi, II, 5 pp. 76-78.

[9] Cfr. ivi, I, 4 pp. 47-48.

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