COLTIVARE E CUSTODIRE IL CREATO. Educare al lavoro e alla salvaguardia del creato.

 Scarica l'articolo IN PDF

                                                                                                          di Antonio PANICO[1]

 

Il titolo di questa giornata di riflessione e studio proposta dall’Istituto Teologico Pugliese ha decisamente più senso nella nostra Regione che altrove: EDUCARE all’esercizio di un lavoro che tiene conto non solo di COLTIVARE ma anche di CUSTODIRE il dono di un meraviglioso CREATO che DIO CI HA OFFERTO è “vocazione” alla quale tutti dobbiamo sentirci chiamati.

 

  1. Dove viviamo

Per capire quanto sia importante riflettere su questi temi è utile passare in rassegna in rapida successione tutti gli elementi problematici con i quali siamo chiamati a confrontarci guardandoli con consapevolezza, senza farci cogliere dalla tentazione di sottovalutarli o ignorarli o reputarli come troppo radicati per essere ridimensionati.   Il disinteresse o l’ingenua accettazione entusiastica di ogni annuncio di impegno a migliorare le condizioni di territori non particolarmente salubri, ma anche la rassegnazione ed il pessimismo sono atteggiamenti da combattere per un cristiano che deve essere invece proteso alla comprensione diretta delle questioni per provare poi ad incidere, in qualche misura in prima persona, nel contesto nel quale vive.

Il primo nodo problematico è quello legato alla crisi economica ed occupazionale con la quale la nostra Regione (così come pure il nostro Paese complessivamente inteso) si sta duramente confrontando. L’ultimo rapporto SVIMEZ presenta a proposito della Puglia dati impietosi: in un anno le esportazioni dei nostri prodotti sono crollate del 10,4% ed il nostro PIL regionale è sceso del 5,9%.   La conseguenza più evidente è l’aumento delle famiglie povere che ormai hanno raggiunto il 23,9% del totale.[2] Non possiamo stupirci allora se anche quest’anno 11.300 persone (non solo giovani) hanno lasciato la nostra regione che ormai conta un tasso di disoccupazione complessiva addirittura del 20,6% mentre il dato della disoccupazione giovanile tocca addirittura il 55%[3].

Ovviamente questi dati così impietosi dovrebbero farci dare priorità assoluta, costi quel che costi, alla conservazione di ogni singolo, preziosissimo, posto di lavoro ed è così infatti, ma noi crediamo che ci siano dei costi personali e collettivi che non sia giusto sopportare. E’ giusto preservare tutti i posti di lavoro esistenti ed è ancora più necessario provare a crearne altri vista la difficoltà nella quale ci dibattiamo. Allo stesso tempo è indispensabile tenere presente gli alti costi sociali e sanitari che un certo tipo di lavoro provoca anche e non solo nel nostro territorio.

Taranto in questo senso presenta una vera situazione paradigmatica.   Il terrore che può leggersi negli occhi degli operai dell’ILVA (12.000 circa) che temono di perdere il proprio posto di lavoro si abbina alla disperazione di tutti coloro che lavorano nell’indotto che serve la grande industria (3.000 occupati circa) e che da mesi reclamano i loro stipendi. A queste due categorie di nostri fratelli e sorelle si legano, non si oppongono, i tanti che soffrono per malattie connesse all’inquinamento e soprattutto i tanti che … non ci sono più, di cui noi sacerdoti abbiamo già celebrato le esequie. Sono tanti, troppi.   Come provare a confortare il dottor Rebuzzi, papà di Alessandro che rappresenta i tanti genitori che piangono i loro figli prematuramente andati incontro al Padre celeste? Lo studio Sentieri dell’Istituto Superiore di Sanità ma anche le perizie richieste dalla Procura della Repubblica presentano un quadro allarmante che potrà peggiorare nei prossimi anni. Come possiamo noi credenti vivere serenamente quando la dottoressa Moschetti, in rappresentanza dei pediatri del nostro territorio, ci ricorda che gli stessi studi dicono che a Taranto e provincia i bambini che muoiono sono il 21% in più che nel resto d’Italia? Come ha scritto il nostro Arcivescovo nel suo intervento alla CEP dello scorso 5 novembre “è intricata la questione connessa al diritto alla vita. Non ci sono distinguo o dati statistici, anche i più confortanti e ottimistici che possano occultare, e non lo vogliamo, l’impatto altamente inquinante e letale delle emissioni dell’Ilva. A ridosso dello stabilimento vi è il popoloso quartiere Tamburi, nel quale, in molte zone vi è addirittura il divieto per i bambini di giocare in spazi all’aperto!”.  Vietare il gioco ai bambini … lo impone il sindaco che mette in atto misure che attualizzano il principio di precauzione, ma è un’abberrazione.   Come è possibile per i papà e le mamme che vivono nel Rione Tamburi imporre ai loro bambini di non uscire a giocare soprattutto se gli spazi verdi esistono e appaiono così allettanti… è un vivere contro natura.   Tra l’altro, mentre è da salutare con soddisfazione l’avvio delle bonifiche degli stessi terreni resta aperta la questione relativa al dato inquietante che non si abbia ancora certezza che gli stessi spazi pubblici non vengano nuovamente inquinati in presenza di un’eventuale aumento produttivo senza che venga garantita la completa attuazione delle prescrizioni presenti nell’ultima AIA. Così come sembra essere contro natura perseverare nel progetto di trivellazioni al largo dell’Adriatico e dello Jonio che potrebbero compromettere in maniera consistente l’equilibrio dell’ecosistema marino oltre che la bella immagine attrattiva che richiama nella nostra regione migliaia di turisti anche dall’estero.   I vescovi abruzzesi e molisani si sono espressi in modo chiaro ed inequivocabile in merito a questa pratica devastante con una nota resa pubblica nello scorso mese di settembre. A Brindisi la centrale di Cerano non fa dormire sonni tranquilli agli abitanti dei quartieri ad essa più vicini così come non può lasciarci indifferenti l’ipotesi dell’apertura della TAP nel Salento in un’area particolarmente suggestiva che così resterebbe segnata e per questo eliminata, dai circuiti turistici di maggiore interesse.   Anche le discariche rappresentano un problema praticamente ovunque nella nostra regione, dal Gargano alla “fine delle terre”.

Come si può vedere il quadro è preoccupante e per questo non possiamo nè disinteressarci né disperarci.   Il cristiano pugliese dovrà iniziare a contagiare con una speranza propositiva tutti gli altri abitanti del proprio territorio.   Noi non crediamo che per lavorare si debba morire e non crediamo che per far valere questa giusta istanza ci sia bisogno dello scontro.   Noi crediamo nel dialogo tra le istituzioni e la popolazione perché è insieme che si può andare oltre l’ostacolo che il tempo presente ci pone dinnanzi.   Senza invadere il campo nel quale altri sono chiamati ad operare noi suggeriamo che con ovvi e necessari sacrifici sia possibile rendere ecocompatibile praticamente ogni tipo di produzione, da quella dell’acciaio a quella dell’energia elettrica.   Noi sappiamo che scegliendo le collocazioni più adeguate e costruendo in maniera attenta anche le discariche possono essere rese non più gravemente offensive per la salute.   Sappiamo anche che se un territorio ha vocazione turistica non va violentato alla ricerca del petrolio che può essere cercato altrove senza frustrare uno dei pochi settori, insieme all’agricoltura, che consentono alla nostra regione di avere qualche vantaggio economico.[4]

 Il cristiano ama e custodisce

Noi amiamo i luoghi che abitiamo e per questo vogliamo rispettarli e vogliamo proporci di educare tutti al rispetto degli stessi.

Il cristiano è chiamato a vivere nel mondo con impegno lasciando un segno positivo. Papa Francesco al n.183 nell’esortazione Apostolica Evangelii gaudium scrive:

Una fede autentica – che non è mai comoda e individualista – implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo, di trasmettere valori, di lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro passaggio sulla terra. Amiamo questo magnifico pianeta dove Dio ci ha posto, e amiamo l’umanità che lo abita, con tutti i suoi drammi e le sue stanchezze, con i suoi aneliti e le sue speranze, con i suoi valori e le sue fragilità.   La terra è la nostra casa comune e tutti siamo fratelli.

Il cristiano dunque, deve impegnarsi nella società nella quale vive e questo “magnifico pianeta”, come lo chiama il Santo Padre, non può essere offeso, deturpato, vilipeso.

Di sicuro guardando tutto ciò che succede attorno a noi è possibile rendersi conto di come il passaggio sulla terra delle ultime generazioni stia lasciando ai posteri un ambiente peggiore rispetto a quello ricevuto dagli avi.   Per quanto, in verità molte cose siano andate progredendo, come abbiamo visto per la nostra regione il creato non è propriamente rispettato e sembra essere in evidente sofferenza.

Da quando gli uomini sono apparsi sulla terra circa 100.000 anni fa hanno iniziato a modificare i luoghi fisici abitati con la loro semplice attività di caccia e raccolta.   Già a quel tempo, in tanti luoghi gli esseri umani hanno provocato l’estinzione di molte specie di selvaggina praticando una caccia sconsiderata e per questo si sono trovati con l’esigenza di dover migrare a causa dell’assenza di cibo.[5]

Con l’avvento 10.000 anni fa circa dell’agricoltura ed il contemporaneo avvio degli allevamenti di bestiame, le terre più fertili vennero messe particolarmente sotto pressione soprattutto se situate a ridosso di zone desertiche o montuose e questo ha rappresentato in qualche misura una piccola ma significativa anticipazione di quanto successivamente si è compiutamente realizzato.[6]

La capacità umana di modificare l’ambiente ha avuto la possibilità di incrementarsi in modo esponenziale a partire dalla rivoluzione industriale e tecnologica degli ultimi secoli.   In particolare in questi ultimi decenni la globalizzazione ha universalizzato il processo di “antropizzazione” che prima era limitato alle sole aree sviluppate e densamente popolate e che oggi giunge praticamente ovunque.

I cambiamenti provocati dalla “invasività” umana negli ecosistemi stanno mettendo a rischio il mantenimento di standard qualitativi di vita determinando una “crisi ecologica” o “ecosistemica” di proporzioni non più trascurabili che richiede una risposta globale.   Il surriscaldamento del pianeta con i conseguenti mutamenti climatici accompagnato dalla deforestazione, dall’iniquo sfruttamento delle risorse non rinnovabili, dal collasso della diversità biologica e dall’immissione nell’aria e nell’acqua di sostanze inquinanti ci richiama in modo forte alla ripresa convinta del senso di responsabilità nel nostro “esserci”, nel vivere “qui ed ora” se si vuole arrestare il declino inesorabile del nostro pianeta.

La nascita di una coscienza ecologica

Sino agli inizi degli anni sessanta non esisteva una reale consapevolezza della necessità di un effettivo rispetto del creato da parte degli uomini.   Accenni all’importanza di tutelare la creazione sono presenti in alcuni discorsi di Paolo VI nell’immediato post-concilio oltre che nell’enciclica Populorum progressio del 1967.[7] Ma è con gli studi del MIT (Massachusetts Institute of Tecnology) in particolare quello commissionato dal Club di Roma e pubblicato nel 1972 con un rapporto dal titolo “I limiti dello sviluppo” che l’umanità inizia a fare i conti con la triste novità dell’inconsistenza della teoria secondo la quale lo sviluppo sarebbe stato felicemente inarrestabile.[8]   Oggi risulta chiarissimo che proseguire all’infinito con uno sviluppo economico caratterizzato da un consumo crescente di risorse naturali non rinnovabili è di fatto impossibile e che si deve necessariamente modificare il modello stesso di sviluppo fino a qualche tempo fa incontestabilmente reputato come valido.

Sempre nel 1972 a Stoccolma si riunì la prima conferenza internazionale delle Nazioni Unite sulla protezione dell’ambiente naturale che si chiuse con una articolata dichiarazione contenente 26 principi su “diritti e responsabilità umane sull’ambiente”[9] e con l’istituzione del programma delle stesse Nazioni Unite per l’ambiente che ha sede a Nairobi (UNEP).[10]   Nasceva, quindi, solo in quegli anni su scala planetaria una vera sensibilità ambientale che trovò anche nel magistero pontificio una convinta adesione.   Nella sua enciclica programmatica Redemptor Hominis del 1979 Giovanni Paolo II colloca la crisi ambientale tra i gravi segni dei tempi con i quali gli uomini avrebbero dovuto confrontarsi:

L’uomo oggi sembra essere sempre minacciato da ciò che produce, cioè dal risultato del lavoro delle sue mani e, ancor più, del lavoro del suo intelletto, delle tendenze della sua volontà … L’uomo sembra spesso non percepire altri significati del suo ambiente naturale, ma solamente quelli che servono ai fini di un immediato uso e consumo.[11]

Un’attenta lettura della storia contemporanea ci conferma la verità di quanto enunciato dal pontefice polacco.   La prima causa dei danni sopportati oggi dall’ambiente è da individuare nel fallace modello di sviluppo occidentale che tende in maniera esasperata al benessere ed al consumo non curandosi dei danni che possono essere arrecati alla natura.   A questo va aggiunto il fatto di aver privilegiato su scala planetaria una politica energetica basata su fonti una volta abbondanti ma al tempo stesso altamente inquinanti come il petrolio ed il carbone. In ultima analisi, al tutto va sommato anche l’assioma secondo cui il profitto debba essere connesso al contenimento dei costi nella logica del massimo risparmio possibile su tutto ciò che permette la produzione del guadagno; questa visione determina non solo la logica dello sfruttamento della manodopera, ma anche quello delle materie prime.

La scoperta inquietante che quella dell’inesauribilità delle risorse naturali era una convinzione assolutamente falsa ha prodotto in questi ultimi anni solo una parziale conversione ad una più oculata gestione delle stesse e, per quanto siano stati raggiunti importanti risultati nel campo dell’uso delle fonti di energia rinnovabile, resta ancora molto da fare.[12]

 

  1. L’ “illuminismo tecnologico” e i suoi danni

Le resistenze ad un mutamento reale del comportamento dell’uomo in materia di produzione industriale sono dettate anche dalla presenza di una sorta di “illuminismo tecnologico”[13] il quale ha diffuso la convinzione che i danni provocati dalle imprese potessero essere facilmente riparati in modo quasi immediato ed indolore dalla natura stessa.   Negli ultimi decenni si è però compreso che l’inquinamento di aria, acqua e suolo produce uno squilibrio difficilmente risanabile e questo è particolarmente dannoso per la salute di uomini, donne e altri esseri viventi. Le conseguenze determinate da un’insufficiente salvaguardia del creato producono effetti economicamente deleteri: bonificare l’ambiente dopo averlo danneggiato è molto più costoso che preservarlo dal degrado.[14]   I costi per la bonifica delle acque e dei terreni contaminati sono così elevati che pochi siti sono stati riportati ad una condizione accettabile.   Occorre, inoltre, fare i conti con i tempi lunghissimi della burocrazia mentre l’interesse delle popolazioni danneggiate richiede rapidità ed efficienza.   Per questa ragione le imprese dovrebbero entrare nell’ottica di valutare come decisamente più conveniente operare nel rispetto dell’ambiente in cui si va a produrre piuttosto che essere costrette a sostenere gli elevati costi per il ripristino delle condizioni ambientali originarie stante l’obbligo sancito dall’Unione Europea che sia chi inquina a dover bonificare.[15]

Nella Caritas in veritate Benedetto XVI, provando a misurare il livello di sviluppo raggiunto dal mondo rispetto a quanto auspicato nel 1967 da Papa Paolo VI nella Populorum progressio, con coraggio richiama ciascuno alla consapevolezza che l’attuale situazione di crisi

… ci pone improrogabilmente di fronte a scelte che riguardano sempre più il destino stesso dell’uomo, il quale peraltro non può prescindere dalla sua natura.   Le forze tecniche in campo, le interrelazioni planetarie, gli effetti deleteri sull’economia reale di un’attività finanziaria mal utilizzata e per lo più speculativa, gli imponenti flussi migratori, spesso solo provocati e non poi adeguatamente gestiti, lo sfruttamento sregolato delle risorse della terra, ci inducono oggi a riflettere sulle misure necessarie per dare soluzione a problemi non solo nuovi rispetto a quelli affrontati dal Papa Paolo VI, ma anche e soprattutto, di impatto decisivo per il bene presente e futuro dell’umanità.[16]

 

  1. La necessaria riscoperta della “chiamata” alla custodia del creato

Tra questi problemi, quello dettato dalla crisi ecologica invita il cristiano a riscoprire la sua originaria chiamata ad essere custode fedele del creato messo a sua disposizione dal Padre.

I due racconti della creazione proposti dal libro della Genesi pongono l’uomo al centro dell’interesse di Dio.   Nel primo racconto il Creatore non si limita ad invitare i nostri progenitori ad essere fecondi e moltiplicarsi riempendo la terra ma anche a “soggiogare e dominare sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra (Gen 1,28).   Nel secondo racconto l’uomo viene, invece, inserito in un habitat particolare, il giardino di Eden, che è chiamato a coltivare e custodire (Gen 2,15).   Le due coppie di verbi che illustrano l’azione degli uomini rispetto al resto della creazione sembrano essere in palese contraddizione tra loro: soggiogare e dominare sono ben altra cosa se rapportati a coltivare e custodire.

In realtà esiste una complementarietà nascosta tra i verbi riportati nei due capitoli di Genesi che va resa evidente: l’uomo è fatto ad immagine e somiglianza di Dio e per quanto tutte le creature siano “cosa buona”, con lui solo tutto diventa “cosa molto buona”.

In quanto rappresentante di Dio, l’uomo deve assoggettare a sé la natura senza dimenticare di custodirla, salvaguardarla.   L’uomo deve non solo coltivare la terra, allevare gli animali, in una parola plasmare il mondo che è messo a sua disposizione, ma è chiamato anche a tenere ordinato, per conto di Dio stesso, il luogo che Egli ha assegnato a lui come dimora.   L’intero creato è dato all’uomo come suo habitat perchè sia da lui abitato e governato ed è un bene che non gli appartiene ma è da custodire responsabilmente in maniera attiva, coltivandolo, così che attraverso il suo lavoro porti frutti perpetuando così l’opera stessa della creazione.

La prospettiva biblica dei primi capitoli della Genesi “non considera l’opera di Dio come un prodotto finito, ma piuttosto come la messa in moto di un processo nel quale la creatura umana é artefice e protagonista”.[17]

La natura non coincide con Dio, ma per quanto questa visione la desacralizzi rispetto alla proposta della religiosità pagana perché altro da Dio che è suo creatore,[18] questo non autorizza l’uomo ad imperversare su di essa riducendola ad oggetto.   Per la Scrittura la natura, pur non essendo divina, appartiene sempre a Dio e non all’uomo ed è evidente che se le creature esistono per l’uomo, l’uomo esiste solo con esse.   Se l’uomo, che è creato per amore da Dio, è realmente immagine di Dio che crea per amore tutto ciò che è presente nel mondo, allora egli non può tradire questo mandato d’amore che lo invita a coltivare e custodire ordinando al bene tutto ciò che gli viene messo a disposizione. Possiamo dire che la sua signoria non è sull’universo ma è nell’universo.

L’antropocentrismo biblico non è cieco: con la sua intelligenza, con le sue capacità, con il suo lavoro l’uomo indirizza la natura al suo servizio custodendola non distruggendola.   Lo sfruttamento sconsiderato, la devastazione derivano dagli sconfinamenti di chi, tra le creature umane, da sempre interpreta in modo peccaminoso la supremazia sulle altre creature.   Nel disegno originario di Dio c’è l’amore e l’amore vero non si concilia con la riduzione della parte amata in un oggetto.   E’ il tradimento dell’ideale creativo che va oltre i limiti dell’azione trasformatrice dell’uomo a reificare l’universo, mostrando disprezzo verso il dono ricevuto.   Nella già citata Caritas in veritate Benedetto XVI ricorda che

Nella natura il credente riconosce il meraviglioso risultato dell’intervento creativo di Dio, che l’uomo può responsabilmente utilizzare per i suoi bisogni – materiali e immateriali – nel rispetto degli intrinseci equilibri del creato stesso… l’ambiente naturale non è solo materia di cui disporre a nostro piacimento, ma opera mirabile del Creatore, recante in sé una grammatica che indica finalità e criteri per un utilizzo sapiente, non strumentale e arbitrario.[19]

Papa Ratzinger, con la sensibilità tipica di chi è nato e vissuto in un territorio in cui da sempre il rispetto per la natura ha segnato fortemente anche la scena politico-amministrativa, addebita a questa concezione distorta del rapporto con l’universo creato i danni con i quali il mondo si sta confrontando in questi ultimi decenni e che segnano una sconfitta nella promozione di un autentico sviluppo.

Già nel 1987 nella Sollicitudo rei socialis Giovanni Paolo II, riflettendo sulle tipicità che dovrebbero caratterizzare uno sviluppo realmente integrale dell’umanità esplicita tre considerazioni che a distanza di molti anni dimostrano di essere ancora attualissime e meritevoli di un ulteriore approfondimento:

La prima consiste nella convenienza di prendere crescente consapevolezza che non si può fare impunemente uso delle diverse categorie di esseri viventi o inanimati – animali, piante, elementi naturali – come si vuole a seconda delle proprie esigenze economiche … La seconda considerazione invece, si fonda sulla costatazione, si direbbe più pressante, della limitazione delle risorse naturali, alcune delle quali non sono, come si dice, rinnovabili. Usarle come se fossero inesauribili mette seriamente in pericolo la loro disponibilità non solo per la generazione presente, ma soprattutto per quelle future.   La terza considerazione si riferisce direttamente alle conseguenze che un certo tipo di sviluppo ha sulla qualità della vita nelle zone industrializzate … la contaminazione dell’ambiente ha gravi conseguenze per la salute della popolazione.   Ancora una volta risulta evidente che lo sviluppo, la volontà di pianificazione che lo governa, l’uso delle risorse e la maniera di utilizzarle non possono essere distaccati dal rispetto delle esigenze morali.[20]

 

  1. L’inscindibile unità tra salvaguardia dell’ambiente ed eticità del lavoro

La crisi ecologica è quindi di natura etica.   La riscoperta dell’originale mandato del Creatore invita tutti gli uomini ad un complessivo ripensamento del proprio “essere nel mondo”.   Il lavoro, che è partecipazione alla stessa azione creatrice di Dio come ricordato dalla Costituzione Pastorale “Gaudium et spes”,[21] e successivamente ripreso al n.6 della Laborem exercens da Giovanni Paolo II,[22] ha la funzione di trasformazione e finalizzazione della creazione e mai dovrebbe essere incline allo sfruttamento.   In questo compito di collaborazione con Dio il lavoro offre all’uomo un importante contribuito al consolidamento della propria identità tanto che la sua assenza, la disoccupazione, è all’opposto una grave menomazione che impedisce alla persona di poter rispondere affermativamente alla originaria chiamata alla cooperazione con il creatore.[23]

Il lavoro ha dunque, il compito di garantire il rispetto delle cose create indirizzandole a vantaggio di un bene che sia comune non solo alle generazioni presenti ma anche a quelle future.   All’uomo è dato un posto speciale nel creato ed un immenso potere di trasformazione dello stesso per mezzo della scienza e della tecnica.   La vera sfida etica da vincere sta nel non esercitare questo potere in modo dispotico, bensì in maniera responsabile così da garantire un uso delle risorse e dello stesso mondo complessivamente inteso alle generazioni future. Chi verrà dopo di noi disporrà di ciò che avremo lasciato loro in eredità ed un pianeta surriscaldato, biologicamente impoverito, eroso, contaminato non è la migliore delle eredità possibili.   L’inarrestabile degrado degli ecosistemi terrestri e marini dimostrataci dai sempre più frequenti moti di ribellione della natura può metterci in una condizione interiore di scoraggiata impotenza che è il preludio della poco cristiana disperazione.

Papa Francesco nella già citata esortazione apostolica Evangelii gaudium parlando della sua visione di Chiesa la immagina “in uscita”, composta da discepoli “missionari” che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono che accompagnano, che fruttificano e festeggiano.     La comunità evangelizzatrice

…sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi…sa coinvolgersi mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario e assume la vita umana toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo.[24]

Il cristiano allora non può restare indifferente rispetto ai problemi che toccano il mondo in cui vive ma, in prima persona, sentendosi a questo chiamato da Dio, fa il primo passo perché si crei comunione affinchè il luogo in cui vive diventi una comunità e non sia solo una società con legami allentati o addirittura un indistinto aggregato di individui sconfitti e rancorosi o accesi d’ira.   La Chiesa non gioca al risparmio, non vuole conservare posizioni di rendita evitando di promuovere la rimozione degli ostacoli che producono uno sfruttamento del creato ma coraggiosamente va incontro al bisogno, anzi ai bisognosi, si impegna in forma diretta per quanto le è possibile ricordando di non avere soluzioni pratiche da offrire ma di essere pronta a mettersi al servizio dell’umanità, di tutto l’uomo e di tutti gli uomini perché i problemi trovino una soluzione o quanto meno vengano ridimensionati nella loro portata.   Il cristiano è per papa Francesco colui che

Mai si chiude, mai si ripiega sulle proprie sicurezze, mai opta per la rigidità autodifensiva.   Sa che egli stesso deve crescere nella comprensione del Vangelo e nel discernimento dei sentieri dello Spirito e allora non rinuncia al bene possibile, benché corra il rischio di sporcarsi con il fango della strada.[25]

Anche nella nostra bella Puglia questo significa impegnarsi con coerenza e con costanza a tutela del creato.   La crescente sensibilità ecologica dell’opinione pubblica, le frequenti mobilitazioni sociali, la presa di coscienza di intere categorie professionali, l’azione della magistratura dimostrano che almeno qui, in riva allo Jonio, è in atto un’importante cambiamento di direzione e i cristiani vogliono essere protagonisti di questa fase storica.

L’immenso capitale etico composto dalla destinazione universale dei beni connessa alla responsabilità intergenerazionale che estende la ricerca del bene comune oltre ogni confine temporale abbinata alla ricerca della giustizia e della temperanza che impone dei limiti alla cupidigia, costituisce l’irrinunciabile ricchezza che la Chiesa mette a disposizione di tutti gli uomini di buona volontà che vogliono costruire, insieme a lei, un mondo più giusto e sostenibile.

 

 

[1] Vicario Episcopale per i problemi sociali e la custodia del creato dell’Arcidiocesi di Taranto. Docente di Sociologia generale e Dottrina sociale della Chiesa presso la LUMSA. Docente stabile di Dottrina sociale della Chiesa presso l’ISSR “Romano Guardini” di Taranto.

[2]Dati presenti nell’ultimo rapporto SVIMEZ pubblicato il 28 ottobre 2014 e consultabile al sito www.svimez.it

[3] Dati ISTAT terzo trimestre 2014 in www.istat.it

[4] Si pensi allo straordinario successo registrato dallo stand pugliese alla recente BIT (Borsa Internazionale del Turismo) tenuta presso la Fiera di Milano.

[5] Cfr., CHIROT D., Sociologia del mutamento, Il Mulino, Bologna, 2010, 27.

[6] Cfr., Ibidem, 34.

[7] Cfr., PAOLO VI, Populorum progressio, Lettera enciclica del 26 marzo 1967, n.34.

[8] Il Club di Roma è una libera associazione di uomini di cultura nata nel 1968. Per la storia degli inizi del percorso di riflessione del Club sulle tematiche ambientali si veda: A.PECCEI, La qualità umana, Mondadori, Milano, 1976.   Il rapporto richiamato nel testo è curato da tre ricercatori americani Donella Meadows, Dennis Meadows e Jørgen Randers ed è stato pubblicato in Italia per la prima volta da Mondadori nel 1972 e rappresenta con i suoi 12 milioni di copie vendute uno dei successi editoriali più clamorosi di sempre.

[9] Per la dichiarazione conclusiva della Conferenza di Stoccolma e i 26 principi si veda: www.cooperazioneallosviluppo.esteri.it/pdgcs/documentazione/AttiConvegni/1972-06-15_DichiarazioneStoccolma26principi.pdf

[10] Sulla storia dell’istituzione dell’UNEP e sugli scopi che si prefigge e la funzione della sede centrale di Nairobi e degli uffici regionali cfr: www.unep.org.

[11] GIOVANNI PAOLO II, Redemptor Hominis, Lettera enciclica del 04-03-1979, n.15

[12] Cfr., GATTI G., Manuale di Teologia Morale, LDC, Leumann (TO), 2001, p.352.

[13] Cfr., PIANA G., Politica, etica, economia. Logiche della convivenza, Cittadella Editrice, Assisi, 2010, 108.

[14] Cfr.,TOGNI P., Le politiche per un ambiente umanizzato, in CREPALDI G. – TOGNI P. (a cura di), Ecologia ambientale ed ecologia umana. Politiche dell’ambiente e Dottrina Sociale della Chiesa, Cantagalli, Siena, 2007, 95.

[15] Con la revisione del Trattato di Roma ad opera dell’Atto Unico Europeo del 1987, il principio “chi inquina paga” già presente nella casistica europea dagli anni settanta trova definitivo riconoscimento nell’art.130R (oggi art.174) quale principio fondamentale della politica comunitaria in materia ambientale.

[16] BENEDETTO XVI, Caritas in veritate, Lettera enciclica del 29 giugno 2009, n.21.

[17] BOVATI P., Genesi 1: vivere l’armonia del creato, in La Civiltà Cattolica, I/2013, 123.

[18] Nel n.48 della Caritas in veritate Benedetto XVI sottolinea che la natura non va considerata più importante della stessa natura umana e che “questa posizione induce ad atteggiamenti neopagani o di nuovo panteismo: dalla sola natura, intesa in senso puramente naturalistico, non può derivare la salvezza per l’uomo”.

[19] Idem.

[20] GIOVANNI PAOLO II, Sollicitudo rei socialis, Lettera enciclica del 30 dicembre 1987, n.34.

[21] CONCILIO VATICANO II, Costituzione Pastorale su la Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 7 dicembre 1965, n.34 : “L’attività umana individuale e collettiva, ossia quell’ingente sforzo col quale gli uomini nel corso dei secoli cercano di migliorare le proprie condizioni di vita, considerato in se stesso, corrisponde al disegno di Dio.   L’uomo infatti, creato ad immagine di Dio, ha ricevuto il comando di sottomettere a sé la terra con tutto quanto essa contiene e di governare il mondo nella giustizia e nella santità e così di riportare a Dio se stesso e l’universo intero, riconoscendo in Lui il Creatore di tutte le cose, in modo che nella subordinazione di tutte le cose all’uomo, sia glorificato il nome di Dio su tutta la terra.”

[22] Cfr., GIOVANNI PAOLO II, Laborem exercens, Lettera enciclica del 14 settembre 1981, n.6

[23] Cfr., FORTE B., Custodire e coltivare la vita. Perché essere corresponsabili?, Relazione alle presidenze diocesane dell’Azione Cattolica, Roma 27 aprile 2013.

[24] FRANCESCO, Evangelii gaudium, Esortazione apostolica del 24 novembre 2013, n.23.

[25] Ibidem, n.45.