Di guerra in guerra o di pace in pace? – Diocesi Ugento Santa Maria di Leuca

 
 

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Omelia nella Messa in suffragio dei morti a seguito del bombardamento
avvenuto nella notte tra il 25 e il 26 giugno 1943
Piazza caduti XXVI giugno, Sannicandro di Bari, 28 giugno 2023. 

Cari Sannicandresi,

è emozionante per me celebrare la liturgia eucaristica in questa piazza, calpestando il suolo dove sorgeva l’antica Chiesa del Carmine. I lughi non sono neutri. Le pietre non sono mute. Nella loro solida conformazione materiale sono scrigni che custodiscono gelosamente gli avvenimenti accaduti. A chi sa sostare in silenzio e sa tendere l’orecchio essi, come una eco che viene da lontano, inviano messaggi e riaprono le pagine della storia e, quasi in dissolvenza, mostrano la tragedia di cui sono stati inerti spettatori. A tutti noi, infatti, è noto il motivo del nostro raduno e della nostra preghiera questa sera: la tragedia che accadde, improvvisa e inattesa, nel centro storico del nostro paese la notte tra il 25 e il 26 giugno 1943. 

Se, dopo ottant’anni dall’avvenimento, ci raduniamo ancora in questa piazza è perché siamo consapevoli che essa ha qualcosa da dirci e da ricordarci. E noi vogliamo ascoltare l’oscuro e impercettibile miscuglio di suoni, esplosioni, voci, grida e lamenti. Questa piazza Carmine e l’altra intitolata ai caduti del 26 giugno, non sono anonime e asettiche. Richiamano una data precisa. Custodiscono per sempre i nomi dei defunti e conservano, per noi e per le future generazioni, l’orrore insensato e tragico della guerra. Il suo incomprensibile mistero. 

In queste due piazze e dentro le pietre che le costituiscono sono nascoste ferite che non si rimarginano con il passare del tempo, piaghe che ancora sanguinano e che continueranno a sanguinare nello scorrere della storia, finché la memoria non sarà dissolta. Ma anche quando, il ricordo degli uomini si farà sempre più labile, (gli uomini hanno la memoria corta), questi luoghi rimarranno fedeli al compito che è stato assegnato. Non verranno cioè meno al ruolo di “testimoni” di quanto è accaduto in quella notte. 

Per certi versi, essi sono ancora oggi, e lo rimarranno pe sempre, i protagonisti loro malgrado della tragedia, gli attori che recitano la tragicità della scena nel grande teatro del mondo, i ripetitori del dolore che hanno ascoltato, gli araldi di un messaggio che vuole giungere fino ai confini del mondo e gridare a tutti che la guerra è una pazzia. No, non si tratta solo di quel frammento di guerra mondiale che ha riguardato il nostro paese, ma di ogni guerra, anche quelle che si consumano, lontano dai nostri sguardi, nella landa più sperduta del mondo. 

Dall’una all’altra parte del globo terrestre, i lamenti si rincorrono e si assomigliano. Le oscene tragedie di morti e di massacri, nel loro incomprensibile accadimento, si ripetono con uguale ferocia. La terra materna si scopre matrigna e, suo malgrado, si ritrova a bere, insaziabile, il sangue che scende copioso sulle sue zolle, inaridite di umana pietà. Le altre guerre ci appartengono. Sono l’altra faccia, il risvolto della medaglia di quella accaduta nel nostro paese. Questa sera celebriamo non un evento singolo, ma l’immane catastrofe della guerra che sembra far sprofondare il mondo nell’abisso degli inferi.                

1. Il racconto della tragedia

Sotto questo profilo è giusto e salutare mantenere vivo il contatto con la realtà storica e riascoltare i fatti accaduti. Nella sua piena aderenza alla realtà, il racconto del prof. Giovanni Vernì è di una bellezza poetica che affascina, proprio mentre descrive la tragedia incombente: «Le ombre della sera – egli scrive – sono scese benefiche sulle cure quotidiane e la cena è stata consumata alla svelta. Si sono spenti gli ultimi conversari tra amici, svuotati i circoli e i bar. 

Fasce di luce sbiadita filtrano per brevissimi istanti da questa o da quella abitazione. Nel cielo, sereno, stellato, uno spicchio di luna nuova disegna un falcino in fase calante. Vie e piazze deserte, tagliate velocemente da due guardie notturne (P. G. e L. M.) che subito scompaiono nel buio di una stradella. Il paese è muto, immobile, vuoto, quasi fasciato da un silenzio triste e pauroso, rotto da un lontano guair di cani e da un vicino cantare di grilli […]. Alle 00.03 in punto, un ronzio d’aerei in movimento, cupo, ritmico, insistente, rompe l’incanto della notte, sale di tono, si allunga, fende l’immensità del cielo, penetra velocemente in terra di Puglia, dalla parte di Altamura […]. Il primo lampo della tempesta in arrivo lo manda, prima che la campana dell’orologio suoni il terzo quarto d’ora del nuovo giorno, un immenso boato che, propagandosi con forza irresistibile all’interno dell’abitato fa da sveglia al paese […]. L’orrenda devastazione è appena cominciata, ma già si notano, terrificanti, nel tessuto della città, i segni della violenta tempesta che si è scatenata […]. Sopraggiunti altri aerei, in ondate successive, la grandinata sale di tono, raggiunge e sorpassa l’intensità di prima. Ora nuvole di polvere, di calcinacci sbriciolati e di fumo nero e acre, riempiono l’aria ammorbandola e rendendola irrespirabile. Urli, lamenti, invocazioni salgono al cielo nella fitta oscurità della notte. Notte di tragedia, notte di inferno, notte di Apocalisse!»[1].  

L’Apocalisse di quella notte si ripresenta nell’Apocalisse del nostro tempo. E questa piazza testimonia la pazzia di ieri e di oggi, mentre mostra le stigmate delle ferite e del sangue innocente versato in quella tragica notte, a seguito del bombardamento da parte della RAF inglese, che provocò la distruzione di molte case del centro storico del nostro paese e la morte di 89 persone inermi[2]. Non è però solo un monito e un richiamo per nostra comunità. È, invece, un grido di allarme che dalla carne lacerata dei nostri morti sale al cielo e grida: la guerra è una pazzia! A distanza di tempo, la voce del loro sangue non si è spenta e, con un silenzio assordante, non si stanca di ammonire e di gridare alle nuove generazioni con un insistente e perentorio leit-motiv: la guerra è una pazzia!   

2. Pazzia fu la guerra che seminò morte a Sannicandro.  

Certo, quanto accaduto nel nostro paese è solo un piccolo “incidente”, non si sa bene per quanto voluto o causato accidentalmente, di una guerra che spesso viene definita “di liberazione”. Ma questo può forse questa etichetta attenuare il dramma che si è consumato in quella terribile notte? Se continuiamo, a distanza di ottant’anni, a farne memoria vuol dire che quel tragico evento ha segnato in modo indelebile la nostra storia e soprattutto le nostre coscienze. La sua gravità non consiste solo nell’aver causato la morte e il ferimento di tanti nostri concittadini innocenti, e nemmeno solo nella distruzione di case e abitazioni, ma soprattutto nel fatto che, avendo riguardato il centro dell’abitato, ha inteso colpire al cuore e infrangere l’anima della nostra gente. 

La distruzione della “Chiesa del Carmine” rimane il simbolo di questa immane tragedia, e la sua ricostruzione il segno e la volontà del nostro riscatto. La statua delle Vergine del Carmelo, rimasta miracolosamente intatta, è l’attestazione divina che la storia non è in balia del caso, del caos e della distruzione, ma è sempre sotto la materna e vigile presenza di Maria. Ella ci rassicura che l’Onnipotente sa trarre il bene anche dalla catastrofe più sconvolgente e devastatrice.    

Soto questo profilo, commemorare l’evento ha certamente il significato di ricuperare, attraverso la comune memoria, le nostre più profonde radici e la dimensione più intima e sacra della nostra identità di popolo che vive in questo territorio. Non per nulla, il nostro paese porta il nome di un santo vittorioso: san Nicandro, vescovo e martire. In un certo senso, il sangue dei nostri concittadini, eroi di una notte di follia, costituisce il fondamento del nostro vivere sociale, civile ed ecclesiale. E, conserva, nelle sue fibre più intime e nascoste, la certezza che la speranza non delude e che anche la tragedia più nefasta lascia intravedere, in lontananza, un futuro radioso. 

Mentre si consuma in Europa la pazzia della guerra, una nuova alba spunta all’orizzonte. L’avvenimento che ha riguardato il nostro paese, infatti, è accaduto nella notte, poco prima dello spuntare del nuovo giorno. I lampi di luce che si sprigionarono dalle bombe, che caddero a grappoli provocando desolazione e tormenti, sono anche oggi segnali di un nuovo bagliore che dà forza alla speranza e rischiarano uno scenario inedito e sfolgorante, esaltando il tesoro di una promessa che appartiene a tutti. 

Il rito religioso e civile di questa sera non è solo esercizio della nostra comune memoria. È soprattutto il nostro perenne memoriale. Per questo non mi sembra eccessivo parlare di un “rito pasquale civile oltre che religioso” (cf. Es 12,14; Lc 22,19; 1Cor 11,25). Il memoriale, infatti, richiama il verbo “ricordare” che, nella sua accezione etimologica, rimanda al cuore (ri – cor – dare) e significa “riportare al cuore”, facendo rivivere il passato nell’oggi. Anche in questa forma civile e patriottica, il memoriale assume il significato di una eternità che penetra nel tempo, non si dilegua e non si estingue e si trasforma in preghiera per «ricordare gli anni lontani» (Sal 77,6), nella certezza che essi sono ancora in azione e offrono un insegnamento che non si deve dimenticare: la guerra è una pazzia! In un’epoca così “smemorata” come la nostra, l’appello a ricordare diventa un invito alla fiducia nel Dio che non abbandona nell’insidiosa trappola della morte. 

Possiamo dunque parlare di una dimensione catartica di questo nostro raduno. Certo, si tratta pur sempre di una guerra, con il suo carico di morte, distruzione e dolore. Rimane però il dovere di cercare la via per costruire pace. Ciò esige la purificazione da ogni tipo di contaminazione interiore, da ogni miasma; purificazione che si realizza come un processo di liberazione dalle impurità dello spirito, memori dello stato di purezza originaria dell’uomo creato da Dio secondo il suo sapiente disegno di pace, giustizia, armonia. Occorre liberare l’anima dalle passioni più aggressive che spingono alla lotta, al conflitto e alla guerra e aprirsi alla prospettiva della saggezza (phronesis). Il momento catartico inizia con la conversione (periagoge) che consiste nello sciogliere i legami spirituali con ogni forma di male e nel rivolgere lo sguardo oltre il senso comune per contemplare il bene e percorrere la via della virtù (aretè). 

Bisogna percorre il difficile, ma necessario sentiero della purificazione del cuore per conquistare la pace[3]. La pace è un cammino che si svolge innanzitutto interiormente e solo dopo porta i suoi frutti anche esteriormente.

3Pazzia è la guerra in Ucraina e in molti altri paesi del mondo.

Questa celebrazione, pertanto, è anche una provocazione. Ci stimola a considerare il presente e a domandaci: se una notte di guerra, con il suo bagaglio di dolore e di pianto, è diventata per noi un pietra miliare della nostra vita sociale, civile e religiosa, un punto fermo e imprescindibile della nostra storia, cosa dobbiamo pensare della guerra che si combatte in Ucraina, nel cuore dell’Europa e di tutte le altre guerre che sconvolgono, in modo nascosto e quasi invisibile, numerosi paesi del mondo, fomentando gli odi e il lucroso commercio delle armi?[4].

Con quale metro possiamo misurare il dolore di tante popolazioni inermi, costrette a subire ogni sorta di angherie e di sopraffazioni, da parte di eserciti e bande armate per il volere di potenti che, per sete di potere e di dominio, non esitano a scatenare conflitti il cui esito è sempre incerto mentre certamente sono i più deboli e i più indifesi a subire le conseguenze più atroci, talvolta, nemmeno immaginabili?

La pazzia della guerra sembra non aver limiti. Come un morbo invincibile sembra aver infettato gli uomini al punto che l’intera storia dell’umanità può essere sintetizza come il cammino Di guerra in guerra[5]Proprio questo è il titolo che il grande sociologo e filosofo Edgar Morin (8 luglio 1921), alla veneranda età di 101 anni, partendo dalla sua esperienza personale, ha dato a un breve e densissimo saggio di storia contemporanea. Partendo dal primo bombardamento aereo in Europa voluto dai tedeschi per terrorizzare le popolazioni civili che annientò Rotterdam nel maggio del 1940, egli giunge a quello di Pforzheim, rasa al suolo da 367 bombardieri della Royal Air Force che uccisero 17.000 civili, cioè un terzo della popolazione, tre mesi prima della capitolazione della Germania, mentre su Dresda, città demilitarizzata, 1.300 bombardieri scaricarono 2.400 tonnellate di bombe causando oltre 300.000 morti. La domanda allora è la seguente: bisognava certo combattere il nazismo, ma si doveva risponde alla barbarie con la barbarie? 

Dopo i milioni di morti causata dalla seconda guerra mondiale, si introdusse la nozione di crimini di guerra, e li si distinse in crimini occasionali (compiuti da singoli o gruppi senza istruzioni), strutturali (compiuti da singoli o gruppi per ordini dei superiori) e sistemici (quelli appartenenti alla strategia bellica governativa). Non vi è dubbio che quelli compiuti contro ebrei, zingari e popolazioni civili prese in ostaggio dai nazisti furono gravi crimini sistemici. Ma «non ci si può impedire di pensare – scrive Morin – che i massicci bombardamenti di città tedesche e della loro popolazione civile, fuori da obiettivi militari precisi, costituiscano retrospettivamente dei crimini di guerra sistemici». Certo, il nazismo fu un’ideologia criminale per natura, cosa che non si può dire delle democrazie alleate. Tuttavia non si può fare a meno di pensare che anche le democrazie «durante le loro conquiste coloniali e nelle repressioni contro i colonizzati, abbiano commesso ciò che, a posteriori, bisogna definire crimini di guerra».

Morin, d’altra parte, non dimentica né il contributo sovietico alla sconfitta del nazismo, né i gulag staliniani, convenendo con Vasilij Grossman che Stalingrado fu «la più grande vittoria e la più grande disfatta dell’umanità». «La propaganda di guerra – egli prosegue – comporta sempre delle menzogne». Nell’attuale situazione della guerra in Ucraina «l’idea stessa di pace è condannata dai media occidentali come “putiniana” alla stregua della capitolazione di Monaco. Nella guerra attuale, rimane un relativo equilibrio delle forze, che crea le condizioni oggettive per un compromesso». 

Quasi a definire la situazione che si è creata con la guerra in Ucraina, Morin parla di radicalizzazione, mentre papa Francesco sceglie il vocabolo polarizzazione. La malattia, alimentata dalla guerra, è la stessa. È il gran male che vede ogni cosa in modo manicheo: o bianca o nera, senza nessuna sfumatura. Bisogna pertanto aprire gli occhi non solo sulla guerra in sé, ma anche su tutti gli epifenomeni prodotti dalla isteria da guerra, ossia dalla sua radicalizzazione o polarizzazione.

Nel suo libro, Morin prosegue la sua analisi con dodici rapidi capitoli che portano titoli significativi: l’isteria di guerra (riferendosi già al 1914-1918), le menzogne, la “spionite”, la criminalizzazione del popolo nemico, la radicalizzazione dei conflitti, le sorprese dell’inatteso, l’errore e l’illusione, la contestualizzazione, la dialettica delle relazioni fra Stati Uniti, Russia e Ucraina, la guerra, per la pace. In definitiva, a suo parere, se la Russia putiniana è l’autrice di questa situazione, lo è al termine di un processo di radicalizzazione reciproca. Come spesso accade nella storia, l’odio per il nemico è un cemento di unità nazionale che fortifica l’identità di una nazione. 

Anche per Jürgen Habermas,[6] «il dilemma che costringe l’Occidente a soppesare rischiosamente le alternative nello spazio tra due mali è chiaro: una sconfitta dell’Ucraina o l’escalation di un conflitto limitato in una terza guerra mondiale». Habermas chiarisce la sua posizione nel senso che l’obiettivo da perseguire non dovrebbe essere la “vittoria”, ma evitare “la sconfitta” dell’Ucraina.

Armare l’Ucraina è indispensabile per la pace e deve essere fatto, non però nella prospettiva di riportare chissà quale “vittoria”, bensì in vista di una “non capitolazione”, perché la capitolazione avrebbe impedito in radice ogni compromesso e quindi ogni negoziato. Per arrivare a questo difficile punto occorre rinunciare – da tutte le parti – ai propositi imperialisti e a propagande ideologiche che credono alla pace solo attraverso la sopraffazione militare oppure, all’opposto, solo nella rinuncia unilaterale alla difesa del Paese aggredito.

Partendo da questo punto, egli pone una serie di domande sulla base del principio che occorre negoziare e ricuperare una visione alta, onesta, coraggiosa della realtà: è impossibile negoziare con un despota? l’Occidente ha negoziato con Stalin e Mao, negozia con Xi Jinping, non potrebbe negoziare con Putin? Quale è l’obiettivo delle forniture di armi: che l’Ucraina “non perda la guerra”, o piuttosto la “vittoria” sulla Russia? È giusto dire che Kiev non può perdere la guerra, ma il punto decisivo «è il carattere preventivo di negoziati in tempo utile a impedire che una guerra lunga mieta ancora più vittime e distruzioni e ci ponga alla fine di fronte a una scelta obbligata: o entrare attivamente in guerra oppure, per non scatenare la prima guerra mondiale tra potenze dotate di armi nucleari, lasciare l’Ucraina al suo destino». Non si può mettere in dubbio la responsabilità dell’aggressore russo. Ma ci si può fermare a questa constatazione e proseguire con i toni che hanno caratterizzato queste giornate di anniversario e che sembrano portare inevitabilmente a una escalation? 

In tal modo, «diventa reale il rischio di aggirarsi come sonnambuli sull’orlo dell’abisso, perché l’alleanza occidentale non solo sostiene l’Ucraina, ma ribadisce instancabilmente che sosterrà il governo ucraino ‘per tutto il tempo necessario’ e che la decisione circa tempi e obiettivi di possibili negoziati spetta esclusivamente al governo di Kiev». In realtà, «I governi occidentali non possono scaricare sul governo ucraino la responsabilità delle brutali conseguenze di un prolungamento delle ostilità, possibile solo grazie al sostegno militare offerto». E alla fine del suo ragionamento, egli conclude: «Proprio perché il conflitto tocca una rete di interessi più ampia, non si può escludere fin dall’inizio la possibilità di trovare, anche per le istanze al momento diametralmente opposte, un compromesso che salvi la faccia a entrambe le parti».

4. Pazzia sarà sempre la guerra

A questo punto si presentano i seguenti interrogativi: È impossibile porre un freno alla violenza? La guerra è un fenomeno ineluttabile? Ci sarà sempre una guerra? La guerra del passato è preludio di quella presente e anticipazione di quella futura? Andremo sempre di guerra in guerra o è possibile pensare che possa esserci finalmente una svolta e passare di pace in pace? Ci sarà un futuro dopo la prossima guerra? 

Sono questi i veri interrogativi dell’umanità. Tutto il resto è una semplice conseguenza. L’alternativa è tra la pace e la guerra, la violenza e la riconciliazione, il conflitto e la concordia, l’opposizione e la consonanza, l’ostilità e l’intesa, il combattimento e il dialogo, lo scontro e l’armonia. Da Caino e Abele ai nostri giorni, è questo il vero dramma dell’umanità. Essa, infatti, si trova di fronte a bivio da cui partono due vie: la via della maledizione e la via della benedizione, la via della vita e la via della morte (cf. Dt 30, 15-17). Si tratta di due vie parallele e alternative, senza la possibilità di una terza soluzione[7].

Senza giri di parole, bisogna dire che le guerre si originano per la sete di potere, di ricchezza e di dominio. Prima dell’uso delle armi, le guerre si combattono con le parole che devono generare dei sentimenti, trasformarsi in teorie, cercare il consenso e spingere all’azione. Quando non si riesce a cambiare il mondo si cambiano le parole. La Russia, oggi, parla di “operazione speciale”. L’occidente, ieri, ha agito per “esportare la democrazia”, come fosse un prodotto. Così la guerra si trasforma nel suo opposto e per questo viene chiamata “operazione di pace”.  

            Assistiamo a un bel paradosso: in Occidente la maggioranza della gente non vuole la guerra, ma i governi dei “paesi democratici” la sostengono; in Russia la maggioranza (anche le opposizioni) condivide grosso modo la linea del loro governo, ma gli occidentali considerano il paese una “democratura”, altrimenti detta “autocrazia”, in sostanza un paese non democratico.  In Russia gli oppositori al regime vengono messi in carcere o vengo eliminati fisicamente, in Occidente chi sostiene la necessità della pace viene accusato di essere “putiniano” e possibilmente viene “silenziato”.

Grosso modo, sono fondamentalmente quattro le concezioni che cercano di spiegare il rapporto tra guerra e pace. Lev Tolstoj nel suo famoso romanzo “Guerra e pace” ribadisce l’insensatezza della guerra e dà forza all’anelito di pace[8]. Nella prima parte del libro terzo del romanzo, racconta che, verso la fine del 1811 erano iniziati, sempre più intensi, l’armamento e la concentrazione delle forze dell’Europa occidentale; e nel 1812 queste forze (milioni di uomini, se si contano anche quelli che provvedevano al trasporto e all’approvvigionamento dell’esercito), si mossero da occidente a oriente, in direzione della frontiera con la Russia, verso la quale, a partire dal 1811, erano del pari affluite le forze russe. Sembra una descrizione dell’escalation in tutto e per tutto simile a quella attuale che si sta verificando nella guerra tra Russai e Ucraina. E continua: «Il 12 giugno le forze dell’Europa occidentale varcarono il confine con la Russia e scoppiò la guerra: un evento contrario alla ragione e alla natura umana divenne realtà». Tenendo conto dei dati storici, egli riflette, in modo quasi metafisico, sul procedere inesorabile degli eventi che la storia ci consegna e sulle cause ultime della guerra. 

La spiegazione antica riferisce tutto a un volere divino. Gli antichi ammettevano una volontà divina che assoggettava i popoli alla volontà di un uomo eletto che agiva sotto la guida della divinità la quale dirigeva la volontà dell’eletto a una meta predestinata. Il destino dell’uomo era guidato da un disegno talmente metafisico da rendere inutile qualsivoglia elucubrazione. Alessandro Magno, ad esempio, era considerato come l’unto del Signore a cui erra stata affidata la missione di riunire tutti i popoli. 

La storiografia moderna si è emancipata da questo assunto, senza però trovare una risposta adeguata. Il destino dei popoli, visto nella visione laica moderna, è nelle mani di pochissime persone. Se queste poche persone, in un determinato momento storico, sono quelle sbagliate accadono i disastri. Se, infatti, in luogo del potere divino mettiamo un’altra forza, bisogna spiegare in che cosa consiste questa nuova forza, perché proprio in questa forza sta tutto l’interesse della storia. Ad oggi non lo sappiamo. 

Di sicuro, commenta Tolstoj ieri come oggi, milioni di uomini commettono, gli uni al danno degli altri, un numero indicibile di misfatti, tradimenti, ladrocini, rapine, incendi e assassinii, falsi in assegni e denaro, quali per secoli non ne annoverano le cronache di tutti i tribunali del mondo. Coloro però che si macchiarono di questi crimini non li consideravano nemmeno reati. Uccidere in guerra sembra non sia reato! A volte non ci si pensa, ma è drammaticamente così: «Una cosa è certa, – continua il grande scrittore russo – che la guerra la combattono quelli che non la decidono. E quelli che la decidono non muoiono mai. Gli altri sì».

La terza spiegazione è di natura psicologica. Nel carteggio del 1932, Albert Einstein pose a Sigmund Freud la domanda “Warum Krieg?” (“Perché la guerra?”) sulla possibilità di liberare gli uomini da questa terribile fatalità. La risposta di Freud fu che nell’uomo vi sono due pulsioni principali: uccidere e procreare, quella che tende a custodire e a unire e quella che spinge a distruggere e a uccidere. La prima ha la funzione di conservare, l’altra tende ad aggredire e a sterminare. Nella realtà, sosteneva Freud, è difficile isolare queste due specie di pulsioni. Ciò potrebbe avvenire solo se la persona riuscisse ad assoggettare la vita pulsionale alla forza della ragione. Ma questa possibilità è del tutto utopica.

Occorre ricordare che il dialogo tra Einstein e Freud avvenne prima dello scoppio della seconda guerra mondiale e che, nelle parole di Freud, era abbozzata la necessità di creare un organismo internazionale che fungesse da moderatore degli interessi e degli istinti degli uomini e degli Stati e nello stesso tempo era quasi formulata la teoria della deterrenza. Freud, infatti, affermò che una prevenzione sicura della guerra è possibile solo se gli uomini si accordino per costituire un’autorità centrale, al cui verdetto vengano deferiti tutti i conflitti di interessi.

Già prima di Freud, Immanuel Kant, nel suo famoso libro “La pace perpetua” (1795), aveva proposto l’idea di creare un organismo super partes per dirimere le controversie tra gli Stati. Nel nostro tempo, dobbiamo amaramente constatare che né la costituzione dell’ONU, né l’attuazione della teoria della deterrenza hanno impedito, almeno fino ai nostri giorni, lo scoppio della guerra, come appare evidente da quella che si sta svolgendo nel cuore dell’Europa. 

Bisogna allora cercare un’altra motivazione che aiuti a comprendere l’origine del male e della guerra. Nel libro, “La religione entro i limiti della sola ragione” (1793), Kant parte dal presupposto che esiste nell’uomo un “male radicale” ossia la radicata tendenza a deviare dalla retta via della moralità e della coscienza morale[9]. Questa teoria kantiana, per certi versi, riflette in ambito filosofico la dottrina cattolica del peccato originale. Per Kant, tuttavia, il male radicale non è “originario”, sfugge alla possibilità dell’analisi e della sintesi e rimane “impenetrabile” alla ragione perché non si può conoscere la causa e l’origine. In tal modo, il concetto di male radicale paradossalmente smentisce lo stesso intento fondamentale di Kant di rinchiudere la religione “entro i limiti della ragione”.    

Diversa è la posizione di Nietzsche per il quale occorre liberarsi da tutte le superstizioni religiose[10]. Riprendendo un detto di Anassimandro, egli ritiene che il male, in quanto necessariamente collegato alla individualità dell’uomo (principium individuationis), è sinonimo di finitezza e la liberazione dal male consiste nell’annullamento di se stessi. Vale così la risposta del demone al re Mida: «Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa, in secondo luogo, migliore per te è – morire presto»[11].

L’uomo, pertanto, è posto di fronte a un bivio: o ammettere lucidamente l’insensatezza della vita, del male e, di conseguenza, della guerra accettandone tragicamente la sua ineluttabilità senza che nessuno possa porvi rimedio o riprendere la dottrina cattolica del peccato originale, inteso come realtà “originante” (ossia come colpa) e “originata” (ossia come condizione), dalla quale si può uscire solo per la redenzione operata da Cristo. Da questo si deduce che «gli uomini, in quanto peccatori, sono e saranno sempre sotto la minaccia della guerra fino alla venuta di Cristo; ma in quanto riescono, uniti nell’amore, a vincere il peccato essi vincono anche la violenza, fino alla realizzazione di quella parola divina: “Con le loro spade costruiranno aratri e falci con le loro lance; nessun popolo prenderà più le armi contro un altro popolo, né si eserciteranno più per la guerra” (Is 2,4)»[12].   

In definitiva, il tema del peccato originale[13] richiama la necessità della redenzione che si realizza pienamente attraverso il mistero pasquale di Cristo. Occorre pertanto confrontarsi con questo dogma se non sivuole rimanere muti di fronte alla domanda sul perché della guerra e assistere impotenti all’orrore causato dall’impiego delle armi, senza nemmeno avere la possibilità di comprendere la terribile e malefica forza che spinge l’uomo a usarle.

5. Prospettive di pace

Giunti a questo punto, non rimane altro se non considerare alcuni temi fortemente presenti nel dibattito contemporaneo: la “guerra giusta”, la legittima difesa, la non violenza attiva e l’ingerenza umanitaria.

Penso che nessuno possa mettere in dubbio il “no alla guerra” sia a partire dalla visione cristiana, sia su base civile (art. 11 della Costituzione). Sorge però la domanda: si può, in alcuni casi, giustificare la guerra di difesa e intenderla come “guerra giusta”? 

Va da sé che la legittima difesa di un popolo si deve considerare come l’estensione della legittima difesa personale»[14]. Il Catechismo della Chiesa cattolica è molto chiaro in materia: ci sono condizioni che ci possono far parlare di «guerra come legittima difesa con la forza militare. Essa è giustificata solo se sottomessa a rigorose condizioni di legittimità morale». Dopo aver elencato le condizioni aggiunge: «Questi sono gli elementi tradizionali elencati nella dottrina detta della ‘guerra giusta’. La valutazione di tali condizioni di legittimità morale spetta al giudizio prudente di coloro che hanno la responsabilità del bene comune»[15].

L’aver conservato il riferimento alla “guerra di difesa” non significa negare la dottrina sulla pace, ma fornire un’indicazione etica precisa ai governanti, nei casi particolari in cui i popoli sono oggetto d’aggressione “durevole, grave e certa”. Per diversi aspetti, richiamano la legittimità del ricorso alla lotta armata nei sistemi totalitari, e il suo inequivocabile fondamento etico: c’è un obbligo di giustizia nel proteggere gli oppressi e indifesi anche con le armi, nel caso in cui tutti gli altri mezzi si siano rivelati inefficaci. Un’eco la si trova nella precisazione di Paolo VI, valida per molti simili casi nella storia: l’insurrezione rivoluzionaria è possibile solo «nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del Paese»[16].

Molte volte viene citato l’invito di Gesù a “porgere l’altra guancia” (cf. Mt 5) e quindi a vivere posizioni radicali di non violenza attiva. Questi riferimenti hanno sempre valore a livello individuale, ma non possono essere estese a livello sociale e politico. Possono avere valore comunitario se tutti i membri del gruppo, adulti e autosufficienti, decidono di adottare la difesa non violenta. Se, invece, sono responsabili di altri (come genitori, politici, capi di un’istituzione, ecc) devono fare di tutto e legittimamente, anche con l’uso delle armi, per difendere dall’aggressore chi è affidato alla loro responsabilità, specie piccoli, anziani e persone in difficoltà. È un obbligo morale, ma anche civile e costituzionale. 

Su questa linea si inserisce il richiamo all’ingerenza umanitaria, così formulata da Giovanni Paolo II: «Quando le popolazioni civili rischiano di soccombere sotto i colpi di un ingiusto aggressore e a nulla sono valsi gli sforzi della politica e gli strumenti di difesa non violenta, è legittimo e persino doveroso impegnarsi con iniziative concrete per disarmare l’aggressore. Queste tuttavia devono essere circoscritte nel tempo e precise nei loro obiettivi, condotte nel pieno rispetto del diritto internazionale, garantite da un’autorità riconosciuta a livello soprannazionale e, comunque, mai lasciate alla mera logica delle armi»[17].

Infine va ricordato che la legittima difesa popolare con le armi non va applicata in maniera troppo larga, fino a «giustificare indebitamente anche attacchi preventivi o azioni belliche che difficilmente non trascinano mali e disordini più gravi del male da eliminare»[18]. Al tempo stesso non è giusto eticamente abbandonare gli aggrediti, non aiutarli, solo perché ripudiamo le armi.

Come in ogni forma di “malattia istituzionale” (mafie, corruzione, violenza, abusi, patologie personali e di gruppo) anche lo stato di guerra richiede necessariamente un costante esercizio di ragione, diritto e morale.

Sotto questo profilo, il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, intervenuto al Vertice dei capi di Stato e di governo del Consiglio d’Europa che si svolto dal 16 maggio, a Reykjavik, in Islanda, ha recentemente dichiarato che è giunto il momento «di agire e di stabilire una pace definitiva e giusta in Ucraina e in tutte le altre zone cosiddette ‘grigie’ dell’Europa». E ha ribadito: «Non possiamo accettare passivamente che la guerra di aggressione in quel martoriato Paese continui. Dobbiamo sempre tenere a mente il popolo ucraino che soffre o muore». Da qui, l’incitamento all’azione per “una pace definitiva e giusta” in Ucraina come pure in tutte le zone europee ferite da conflitti e divisioni. 

Nel nostro tempo, occorre assolutamente evitare una guerra mondiale. Sarebbe peggio della precedente (quando ancora non esisteva il pervasivo decisivo rischio nucleare). La guerra produce un virus mortale che avvelena con la propaganda e il confronto e facilita il lavoro degli opposti estremismi. Bisogna conservare uno suo sguardo nobile che non vede mai in bianco e nero, senza tutte le sfumature di colore. Bisogna ricordare l’ovvio: tutte le guerre sono finite con un trattato di pace. Dal primo che si dice essere il “Trattato di Qadeš” (datato 1274 a. C. che pose fine alla guerra tra il regno d’Egitto e l’impero ittita) fino al Trattato di Helsinki del 1975, che ha segnato un passo decisivo verso la fine della Guerra fredda. 

Per quanto le posizioni siano inconciliabili, l’unica strada è quella negoziale: le alternative sono inaccettabili. L’auspicio è che la missione di pace affidata da Papa Francesco al cardinale Zuppi vada a buon fine. Quantomeno, crei le condizioni per il “cessate il fuoco” e avviare negoziati in vista di una pace giusta e duratura.   


[1] Cf. G. Vernì, 25-26 giugno: errore o calcolo?, Edizioni Sollazzo, Cassano Murge, 1999, pp. 43-45.

[2] Su questa vicenda, i nostri concittadini Giovanni Vernì e Paolo Vitarella ha raccontato l’evento con una dovizia di documenti e di testimonianze cf. G. Vernì, 25-26 giugno, cit.; Id., Sannicandro nella storia. Medaglioni. Uomini e fatti di casa nostra, Edizioni Sollazzo, Cassano Murge 2002; P. Vitarella, Storia politica di Sannicandro di Bari nella prima metà del Novecento. Don Cosimo Losurdo, Centro Studi Nicolaiani, Levante Editore, Bari 2002. Le loro analisi sono state riportate, in parte, in D. Magistrale, Le strade raccontano. Sannicandro di Bari, Graphic Artist, Andria 2011, pp. 87-105.

[3] Cf. T. Špidlik, L’arte di purificare il cuore, Lipa, Roma 1999. Si tratta dell’arte del combattimento spirituale perché il cuore purificato diventi una fonte di rivelazione. La vita dell’uomo sulla terra è un combattimento interiore. Chi non impara a combattere, non è degno nemmeno di vivere. Un antico autore mistico paragona la nostra anima ad una grande città. Nel centro c’è un bel castello, vicino c’è la piazza del mercato e intorno la periferia. Il nemico, cioè il peccato originale, ha occupato la periferia, cioè i nostri sensi. Ed è perciò che in quel punto spesso ci sentiamo turbati. Ma questi turbamenti arrivano di frequente anche alla piazza del mercato, cioè là dove si comincia a discutere se dobbiamo o non dobbiamo accogliere un pensiero come nostro o se piuttosto dobbiamo rifiutarlo. Ma nel castello interiore, dove è la nostra libertà ad essere il padrone, il peccato non può penetrare se non gli apriamo la porta con il nostro libero consenso. Occorre imparare la difficile, ma necessaria arte di purificare il cuore

[4]  Cfr. E. Friedrich, Guerra alla guerra. 1914-1918: scene di orrore quotidiano, Mondadori, Milano 2004. Il libro di Ernst Friedrich rivela al mondo il vero volto della guerra, e lo fece nel modo più sconvolgente, pubblicando una raccolta di fotografie terrificanti e commoventi che raccontavano cos’era successo davvero durante il primo conflitto mondiale. Friedrich denunciò gli orrori della guerra attraverso le immagini di cosa era accaduto durante gli anni della Grande Guerra nelle trincee e nei campi di battaglia, le mutilazioni fisiche e psicologiche, la distruzione della natura, le sofferenze di chi aveva combattuto e di chi era restato nelle città, il dolore per i morti e quello per i sopravvissuti. Invece il libro di M. Pucciarelli, Guerra alla guerra. Guida alle idee e alle pratiche del pacifismo italiano, Laterza, Roma 2023, richiama le ragioni della pace e del disarmo e le proposte pratiche fatte negli anni, ignorate e confinate nel campo dell’utopia in tempo di quiete, e trattate con sufficienza – se non dileggio – in tempo di guerra. Sono così presentati i pacifisti italiani, le loro esperienze e le contraddizioni, il costo della guerra e chi paga il conto, chi ha interesse a soffiare sul vento della guerra.

[5] Cfr. E. Morin, Di guerra in guerra. Dal 1040 all’Ucraina invasa, Raffaello Cortina, 2023.

[6] Cfr. J. Habermas, Europa tra guerra e pace, articolo in “Süddeutsche Zeitung”, venerdì 29 aprile 2022, tradotto in Italia da Repubblica 19 febbraio 2023.

[7] «Ora questa è la via della vita: innanzi tutto amerai Dio che ti ha creato, poi il tuo prossimo come te stesso; e tutto quello che non vorresti fosse fatto a te, anche tu non farlo agli altri», Didaché, I, 1-2.

[8] Va detto che le parole russe “guerra” e “pace” (che include il significato di “mondo” e “società secolare”) sono omofone. Si è diffusa così la convinzione che in origine il romanzo di chiamasse “La guerra e il mondo”, oppure “La guerra e la società”. A far giustizia di un tale equivoco, sta il fatto che lo stesso Tolstoj tradusse il titolo della sua opera in lingua francese con l’eloquente espressione “La guerre et la paix”

[9] Così egli scrive: «Questo male è radicale perché corrompe il principio di tutte le massime e nello stesso tempo, d’altra parte, in quanto tendenza naturale, non può essere distrutto dalle forze umane, perché ciò non potrebbe avvenire se non per mezzo di buone massime, il che è impossibile, se il principio soggettivo supremo è presupposto corrotto […]. Per noi, non c’è alcuna causa comprensibile dalla quale il male morale possa per la prima volta essere venuto in noi» (Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, cap. I, parte III, Laterza, Bari- Roma, 1985, pagg. 38-45).

[10]  «Un grado molto elevato di cultura è raggiunto quando l’uomo si libera dai concetti e dalle angosce superstiziose e religiose e per esempio non crede più ai cari angioletti o al peccato originale, e ha anche disimparato a parlare della salvezza delle anime» (F. Nietzsche, Umano troppo umano I, n. 20, Opere 1870/1881, Newton, Roma, 1993, p. 530). 

[11] Id., La nascita della tragediaivi, 1988, p. 31s, corsivi nel testo.

[12] Gaudium et spes, 78.

[13] Cfr. A. Riconda et Al. (ed), Il peccato originale nel pensiero moderno, Morcelliana, Brescia, 2009.

[14] Sant’Agostino afferma: «È infatti l’ingiustizia del nemico che obbliga [ingerit] il saggio ad accettare guerre giuste e l’uomo deve dolersi di questa ingiustizia perché appartiene agli uomini, sebbene da essa non dovrebbe sorgere la necessità di far guerra, Agostino, La città di Dio, XIX, 7.

[15] Catechismo della Chiesa Cattolica, 2309.

[16] Paolo VI, Populorum progressio, 31.

[17] Giovanni Paolo II, Pace in terra agli uomini che Dio ama, 1° gennaio 2000.

[18] Francesco, Fratelli tutti, 258.

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