La Chiesa, una carovana solidale che cammina nel deserto – Diocesi Ugento Santa Maria di Leuca

 
 

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Omelia nella Messa del mercoledì delle ceneri
Chiesa Cattedrale – Ugento, 14 febbraio 2024.

Cari fratelli e sorelle, 

con il mercoledì delle ceneri inizia il nostro itinerario quaresimale. La sua tonalità penitenziale e battesimale richiama i quarant’anni di cammino del popolo di Israele e i quaranta giorni di permanenza di Gesù nel deserto. Questi due riferimenti biblici sono un simbolo del cammino quaresimale che siamo invitati a percorre per giungere a celebrare il mistero pasquale di Cristo.     

Dio passa in rassegna e guida il suo popolo nel deserto 

La fede ci insegna che Dio non abbandona il suo popolo e come un vero condottiero, prima di dare inizio al cammino, passa in rassegna e “conta” i suoi compagni di strada perché non vuole perdere nessuno e portare tutti alla salvezza. Il libro dell’Esodo, infatti, si apre con questa espressione: «Questi sono i nomi dei figli di Israele entrati in Egitto» (Es 1, 1). Ed anche l’esordio del Libro dei Numeri, che narra gli avvenimenti del deserto, recita: «Il Signore parlò a Mosè, nel deserto del Sinai, nella tenda del convegno, il primo giorno del secondo mese, il secondo anno dalla loro uscita dalla terra d’Egitto, e disse: “Fate il computo di tutta la comunità degli Israeliti, secondo le loro famiglie, secondo i loro casati paterni, contando i nomi di tutti i maschi, testa per testa”» (Nm 1,1). 

Dio stesso si mette a “contare” i membri del suo popolo. Come il buon pastore conosce ed è conosciuto dalle sue pecore (cfr. Gv 10, 14). Conta la moltitudine delle stelle e chiama ciascuna per nome (cfr. Sal 146,4), raduna attorno a sé i Dodici (cfr. Mt 10,1), conosce anche il numero dei nostri capelli (cfr. Mt10,30). Gli sono noti con precisione i nostri pensieri, i desideri più profondi, le nostre più intime aspirazioni (cfr. Sal 138, 1-4). 

Il nostro cammino quaresimale è guidato da Dio stesso. Così recita il salmista: «Guidò il suo popolo nel deserto, perché il suo amore è per sempre» (Sal 136, 16). La sua guida non è mai venuta meno ed ancora nel nostro tempo è lui a indicare e orientare la direzione da intraprendere.

La Chiesa, popolo in cammino  

Dio conosce personalmente coloro che fanno parte del suo popolo. Anche i credenti devono conoscersi tra di loro. Prima di intraprendere il viaggio e durante la traversata nel deserto occorre che i pellegrini instaurino relazioni di reciproca conoscenza. Il popolo di Dio non è una folla anonima e informe, un insieme indistinto e confuso, ma un intreccio di relazioni amicali e fraterne. Guardando dal basso, forse, i numeri possono rivelare una diminuzione delle presenze. Dall’alto, cioè dal punto di vista di Dio, si percepisce che, pochi o molti, tutti devono sentirsi partecipi dello stesso destino. «Oggi, – scrive papa Francesco – quando le reti e gli strumenti della comunicazione umana hanno raggiunto sviluppi inauditi, sentiamo la sfida di scoprire e trasmettere la “mistica” di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio. In questo modo, le maggiori possibilità di comunicazione si tradurranno in maggiori possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti»[1]

Nel deserto è più facile disorientarsi e smarrirsi. Se non si sta insieme, non si sopravvive. Se, invece, si è concordi sarà più facile superare le difficoltà e le avversità, la solitudine e la dispersione, la confusione e l’impotenza, la tentazione e la prova. Per camminare insieme bisogna armarsi di tenacia e perseveranza, resistenza e donazione, pazienza e sopportazione. Soprattutto bisogna incoraggiarsi e sostenersi vicendevolmente. I forti «hanno il dovere di sopportare l’infermità dei deboli» (Rm 15,1) e tutti devono rimanere saldamente ancorati a Cristo, pietra spirituale che cammina insieme a loro (cfr. 1Cor 10, 1-5). Questa immagine paolina richiama la dinamica della vita spirituale. Secondo san Gregorio di Nissa, si progredisce solo se sta fermi, cioè se si rimane strettamente uniti alla roccia che è Cristo[2].

Non bisogna dunque stancarsi di convertirsi, di fare il bene, di pregare. Allora, nonostante tutte le difficoltà, come il profeta Balaam, sarà possibile vedere che le tende, fissate nell’unico accampamento, «si estendono come vallate, come giardini lungo un fiume, come àloe, che il Signore ha piantato, come cedri lungo le acque» (Nm 24,3-6). La bellezza dell’accampamento sta proprio nel fatto di non essere una città formata da case stabili e immobili, rigide e statiche, ma da un insieme di tende, che hanno nella flessibilità e nella mobilità la loro forza, la capacità di resistere agli urti, la possibilità di progredire e di muoversi verso la meta, seguendo la nube che le guida. 

In ascolto della Parola di Dio 

La possibilità di questo movimento è direttamente collegata con la capacità di avanzare nella conoscenza di Dio e, in particolare, nello studio, nella comprensione e nell’amore verso la Scrittura. Questa è come un pozzo[3]: quanto più si scava, tanto più si riceve acqua fresca che sgorga dalle profondità di Dio. Da questo pozzo si attingono le virtù necessarie per camminare nel deserto: la pazienza, la sapienza e la speranza. 

La Parola di Dio dà gioia[4]. È la vera manna offerta per il cammino di ogni giorno[5]. È sempre nuova, precede sempre ogni richiesta di aiuto. È il giusto sprone per il cammino. Il suo cuore è il comandamento dell’amore che «non invecchia e rende sempre nuovi nello spirito coloro che lo osservano e lo custodiscono»[6]. È come una noce, la sua scorza è dura e amara[7]. Molti ne sono respinti. Tuttavia, se si è in grado di aprire il suo guscio si gusta la dolcezza di un frutto che nutre, sazia e rallegra. 

La Parola è il pozzo per attingere l’acqua, l’oasi per il riposo, il cibo per rinvigorirsi e ripartire. Per compiere la traversata nel deserto, occorre rimettere la Parola di Dio al centro dell’accampamento e invitare tutti scoprire che si tratta della lettera d’amore inviata da Dio per insegnare il segreto della vita. Se si accende nel cuore un piccolo fuoco della sua conoscenza «non è più possibile stare in ozio o in riposo, ma sempre è chiamata dalle cose buone alle migliori e di nuovo dalle migliori alle più alte»[8]. Occorre, inoltre, essere “custodi della Parola” e portarla nella mente e nel cuore perché orienti il cammino della carovana nel deserto[9].

La mobilità delle tende

Nel deserto, Dio abita nella tenda (il tabernaculum) costruita da Mosè secondo il modello celeste che aveva visto sul monte. La Chiesa è la dimora di Dio con gli uomini, la concretezza della sua presenza nel mondo.  E come i leviti erano incaricati di servire e portare sulle loro spalle l’arca dell’alleanza, così anche i sacerdoti sono chiamati a mettersi a servizio della “tenda di Dio con gli uomini” e a diventare “costruttori di tende”. 

L’azione pastorale, infatti, consiste nel tessere, ricamare, cucire e ricucire, con pazienza e arte, i fili e le reti perché Dio possa abitare in mezzo al suo popolo e gli uomini possano trovarsi a loro agio nella sua casa. Questo compito richiede un’ascesi relazionale ossia la capacità di mediare, sopportare le offese, saper parlare il linguaggio di tutti, essere umili per condurre a Dio e non a sé[10]. L’apostolo Paolo è il modello di questo apostolato. Da fabbricante di tende terrestri viene chiamato a costruire tende celesti. Egli, scrive Origene, «fabbrica tende quando diffonde il Vangelo di Dio, costruendo le Chiese»[11].

Nel deserto bisogna trovare il modo giusto per spostare la tenda e procedere, un passo dopo l’altro, assieme agli altri. C’è bisogno dell’apporto di tutti, nella diversità dei carismi e dei ruoli. Tutti sono necessari e tutti possono dare il loro specifico contributo. Commentando il passo di Deuteronomio 25,18, Origene scrive che Amalek, il grande nemico, aggredisce i più deboli che rimangono nella retroguardia. «Se ci trova stanchi, senza forze, con lo sguardo rivolto all’indietro e posti da ultimi in coda, ci sopprime. Per questo dobbiamo sempre tendere in avanti ed affrettarci alle cose poste davanti, anzi salire sulla cima del monte e sempre innalzare le mani al cielo nella preghiera, perché così, alla fine, Amalek sia vinto e cada»[12].

La tenda richiama le tappe del cammino, fatto di prove, tentazioni, combattimenti, consolazioni. Per Origene ognuna delle 42 tappe nel deserto, elencate dal capitolo 33 del libro dei Numeri, rappresenta una particolare caratteristica del viaggio della Chiesa e dell’anima, pellegrinante tra prove, lotte e momenti di sollievo[13].

La tenda (tabernaculum) è anche un “rifugio”, un luogo intimo dove ci ripararsi e custodire al sicuro ciò che è più prezioso. La Chiesa stessa è una tenda che consente la custodia della fede, l’ancora della speranza e la riserva della carità. Per quanto la fede sia un cammino, non bisogna perdere l’idea che c’è bisogno di un luogo dove ci si possa sentire “al sicuro”, avvertire la forza della solidarietà, la roccia della solidità, il sostegno della preghiera. 

La tenda, infine, è lo stesso corpo di Cristo. Lui per primo ha percorso il cammino dal cielo alla terra per aprirci le porte del cielo; attraversa con noi questo deserto, vince per noi le tentazioni, ci dona la forza per vivere con gioia il tempo presente. È lui che ci insegna a pregare. Nel combattimento contro lo spirito del male, la preghiera è lo strumento migliore per non restare con lo sguardo rivolto all’indietro, nel rimpianto e nella commiserazione, ma per dilatare il cuore e compiere l’esercizio del desiderio[14]. La preghiera spinge in avanti, creare nuovi spazi, sostiene nel cammino, dona la forza per non scoraggiarsi. Rinnoviamo la nostra fede in lui. Gesù Cristo è nostro Dio e nostro fratello, nostro compagno di viaggio, nostro amore e nostra speranza, origine e meta della fede e della vita[15].

Concludendo questa mia esortazione omiletica, invito ad ascoltare le parole di Origene: «Se hai compreso quale pace possieda la via della sapienza, quanta grazia e quanta dolcezza, non essere indifferente né trascurato, ma intraprendi questo viaggio e non avere timore della solitudine del deserto. Giacché se tu abiti queste tende, ti sarà offerta la manna celeste, e mangerai il pane degli angeli. Soltanto comincia e non ti spaventi, come abbiamo detto, la solitudine del deserto»[16].


[1] Francesco, Evangelii gaudium, 87.

[2] Cfr. Gregorio di Nissa, La Vita di Mosè, 2,244.

[3] Cfr. Origene, Omelie sui Numeri, 12; Id., Omelie sulla Genesi, 13.

[4] Cfr. Origene, Omelie sui Numeri, 11,8.

[5] Cfr. ivi, 3,1.

[6] Ivi 9,4.

[7] Cfr. 9,7.

[8] Ivi, 17,4.

[9] Cfr. ivi, 10.

[10] Cfr. Giovanni Crisostomo, Dialogo sul sacerdozio, 3,9.

[11] Origene, Omelie sui Numeri, 17,4.

[12] Ivi, 19,1.

[13] Cfr. Origene, Omelie sui Numeri, 27.

[14] Cfr. Agostino, Lettera, 130, 8.17.

[15] A tal proposito, vale la pena di riportare un racconto dal titolo La carovana nel deserto: «Un potente sovrano viaggiava nel deserto seguito da una lunga carovana che trasportava il suo favoloso tesoro d’oro e pietre preziose. A metà del cammino, sfinito dall’infuocato riverbero della sabbia, un cammello della carovana crollò boccheggiante e non si rialzò più. Il forziere che trasportava rotolò per i fianchi della duna, si sfasciò e sparse tutto il suo contenuto, perle e pietre preziose, nella sabbia. Il principe non voleva rallentare la marcia, anche perché non aveva altri forzieri e i cammelli erano già sovraccarichi. Con un gesto tra il dispiaciuto e il generoso, invitò i suoi paggi e i suoi scudieri a tenersi le pietre preziose che riuscivano a raccogliere e portare con sé. Mentre i giovani si buttavano avidamente sul ricco bottino e frugavano affannosamente nella sabbia, il principe continuò il suo viaggio nel deserto. Si accorse però che qualcuno continuava a camminare dietro di lui. Si voltò e vide che era uno dei suoi paggi, che lo seguiva ansimante e sudato. “E tu”, gli chiese il principe, “non ti sei fermato a raccogliere niente?”. Il giovane diede una risposta piena di dignità e di fierezza: “Io seguo il mio re”».

[16] Origene, Omelie sui Numeri, 17,4.

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