La strada, la casa, l’oratorio – Diocesi Ugento Santa Maria di Leuca

 
 

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Omelia nella Messa per l’immissione canonica di don Gianni Leo,
Parrocchia san Giovanni elemosiniere, Morciano, 18 novembre 2023.

Caro don Gianni,
cari sacerdoti,
cari fedeli 
l’avvicendamento della guida pastorale di questa comunità da don Antonio e alla tua persona avviene nel contesto della fine dell’anno liturgico. La Colletta alternativa offre i contenuti fondamentali della spiritualità escatologica della vita cristiana. Abbiamo, infatti, pregato il Signore con queste parole: «Rendici servi operosi e vigilanti, perché facciamo fruttare i nostri talenti per entrare nella gioia del tuo regno».

Andare incontro a Cristo, il Veniente

Tutta la vita cristiana è orientata alla contemplazione delle realtà ultime e all’attesa della parusia e della gloria del Signore Gesù. Occorre essere protesi all’incontro con il Veniente e prepararsi per quel giorno tremendo e glorioso. La rivelazione non annuncia nessuna data e non offre nessuna risposta precisa alle febbri apocalittiche sempre presenti nella storia. L’eschaton si attende, non si indaga negli oroscopi. Ai credenti rimane il compito di leggere i segni dei tempi e vivere con vigilanza il presente, conservando la memoria della promessa del Signore e attendendo che tutto si compia. 

Gli ultimi tempi sono i tempi dell’allenamento al discernimento, a quell’esercizio attraverso il quale si può giungere a “vedere con chiarezza”, a distinguere ciò che è bene e ciò che è male, a trovare le ragioni per la scelta della vita e per la decisione a rigettare ogni forma di male. L’ora della fine ha certamente il potere di incutere paura. Per il cristiano però è l’occasione opportuna per ritemprare la fiducia in Dio e la speranza nel suo Regno: la nostra sola paura dovrebbe essere quella di perdere la fede!

Il timore di perdere la fede dovrebbe acuire l’impegno a vivere nell’attesa e nella vigilanza quotidiana, sapendo che il tempo ha una fine e che la venuta del Messia glorioso può irrompere anche durante la nostra vita (cfr. 1Ts 4,15‑18). La sua apparizione non consiste nella distruzione di questa creazione, ma nel renderla nuova e trasfigurata. Il dinamismo sacramentale anticipare nel tempo la presenza del Veniente e ci ricorda continuamente il nostro stato di “viatores”, protesi nella dialettica tra cercare il Signore per trovarlo e cercarlo ancora, dopo averlo trovato. 

Per il cristiano, vivere la dimensione escatologica significa pensare in modo diverso il tempo che si abita, risvegliare la consapevolezza della provvisorietà e dell’incompletezza di ogni comunità, ripensare le stesse strutture della vita sociale, leggere i sacramenti e la liturgia come strumenti necessari ma sempre provvisori, in vista del télos che è la carità, l’unica dimensione che rimane nel Regno che viene (cf. 1Cor13,13). 

Mettere l’escatologia al centro della professione di fede significa vivere in tensione verso il compimento che non è ancora avvenuto, sorretti dalla speranza, non già dalla visione (cf. 2Cor 5,7). 

Tuttavia il cristiano cammina come se vedesse l’invisibile (Eb 11,27)[1]Gli occhi della fede («iustus autem ex fide vivit», Rm 1,17) gli permettono di intravedere le realtà invisibili che sono eterne (cf. 2Cor 4,18) e di percepire, nella veglia, una presenza di Cristo, colui «che era, che è e che viene» (Ap 1,8). Nel frattempo, al cristiano non è consentita nessuna relazione da spettatore nei confronti delle fatiche e delle sofferenze che attanagliano gli uomini. Il suo specifico è la fede in Cristo che viene ogni giorno e verrà alla fine dei tempi: una «fede operante attraverso la carità» (Gal 5,6).

La parrocchia, comunità in cammino

 Questa spiritualità escatologica deve animare la parrocchia. Il termine stesso “parrocchia” deriva dal greco “παροικία” e significa “abitazione presso”. Chi abita presso qualcuno non è stabile, è uno straniero, non ha una casa propria. La sua è una “abitazione provvisoria”, una “dimora temporanea”, una “comunità di passaggio”. La Lettera agli Ebrei afferma: «Non abbiamo sulla terra una città stabile, ma cerchiamo quella futura» (Eb 13,14). Ed anche lo scritto A Diogneto ricorda che i cristiani «stanno nella loro patria, ma come pellegrini (πάροικοι)»[2]

La parrocchia è il luogo dove è possibile proporre a tutti con convinzione la «misura alta della vita cristiana ordinaria» e percorsi praticabili di santità[3]. Essa si colloca all’interno della Chiesa diocesana non in forma statica, né come un organismo amministrativo subordinato in modo passivo alla diocesi, ma in modo dinamico e vitale come una “cellula”. E come la cellula riceve dal corpo e insieme dà al corpo, così la parrocchia riceve dalla diocesi e dà alla diocesi. La vitalità della diocesi dipende strettamente da quella delle sue parrocchie. 

a) La strada: la spiritualità escatologica della vita cristiana 

Tre aspetti devono essere le linee guida del cammino parrocchiale. Innanzitutto la spiritualità della strada. La dimensione escatologica, richiamata in precedenza, deve innervare tutta la vita cristiana. Dalla vita di fede deve maturare una vera e propria spiritualità missionaria o spiritualità della strada. Ogni cristiano deve diventare sempre più compagno di viaggio dell’uomo contemporaneo. Cristo ha vissuto gran parte del tempo della sua vita pubblica per strada. È stato missionario del Padre, camminando per le vie percorse ogni giorno dalla gente. Ha amato perdutamente l’uomo da cercarlo continuamente. 

Lo stile di vita, vissuto da Gesù venti secoli fa, è il modello che il discepolo deve assumere. I cristiani sono chiamati ad essere viandanti, non sedentari. Debbono essere in continuo atteggiamento esodale, sempre desti e pronti a mettersi in cammino. Come il popolo ebraico proteso verso la terra promessa, anche i cristiani sono una comunità di pellegrini, che viaggiano insieme verso la vera patria e si aiutano vicendevolmente per raggiungerla. Bisogna dunque evitare di stare seduti, ma andare a cercare la gente lungo le strade delle “periferie esistenziali”.

b) La casa: la dimensione familiare e comunionale della parrocchia 

Per “uscire” bisogna prima ritrovarsi nello stesso luogo. In questo senso, bisogna considerare che «la parrocchia non è principalmente una struttura, un territorio, un edificio; è piuttosto “la famiglia di Dio, come una fraternità animata dallo spirito d’unità”, è “una casa di famiglia, fraterna ed accogliente”, è la “comunità di fedeli»[4], la comunità di coloro che credono in Gesù, luogo dove si fa esperienza di fraternità. Per questo essa deve essere “casa e scuola di comunione”[5], «casa aperta a tutti e al servizio di tutti»[6]. La spiritualità di comunione si traduce in attitudine a pensare insieme, a camminare insieme, a discernere insieme, nel rispetto delle vocazioni, delle funzioni e delle responsabilità di ciascuno. 

Il legame tra la famiglia e la comunità cristiana è, per così dire, “naturale”, perché la Chiesa è una famiglia spirituale e la famiglia è una piccola Chiesa[7]. La Chiesa è come una famiglia in cui si ama e si è amati. Il termine “casa” (“oikòs”) definisce la famiglia e la parrocchia ed esprime l’idea che il nucleo famigliare e quello ecclesiale devono essere un “focolare domestico”, un ambiente di relazioni interpersonali calde e affettuose. La famiglia è un soggetto che contiene in sé un ricco patrimonio relazionale. Ed anche la parrocchia non è identificabile con un’agenzia che distribuisce servizi religiosi, un ente organizzatore di eventi, un luogo di ritrovo per passare il proprio tempo, ma è una “famiglia di famiglie” nella quale il patrimonio relazionale si moltiplica e si arricchisce.

San Paolo VI diceva: «la parrocchia è un prodigio sociale, una bellezza sociale […]. Qui siete uniti da una rete di rapporti spirituali, qui vi volete bene […] vi unisce il vincolo della carità […]. Badate che questo è il cemento che fa di una popolazione cosi varia e così diversa e cosi sparsa “un cuor solo e un’anima sola”»[8]. «Posta in mezzo alle case degli uomini, la parrocchia vive e opera profondamente inserita nella società umana e intimamente solidale con le sue aspirazioni e i suoi drammi»[9]. Pertanto lo spirito di ospitalità e accoglienza che caratterizza il raduno eucaristico dà senso e stile alle attività pastorali, sociali e culturali: dall’evangelizzazione alla carità, alla promozione culturale e sociale.

c) L’oratorio: il “laboratorio dei talenti” della comunità

Il terzo riferimento pastorale è l’oratorio, giustamente definito “laboratorio dei talenti”[10]. Anche per questo, a Morciano come in tanti altri paesi della diocesi, sono state edificate strutture oratoriane. 

L’oratorio deve essere espressione della comunità ecclesiale che si prende cura, dell’educazione delle giovani generazioni, con il sostegno di adulti testimoni del messaggio evangelico. La natura educativa dell’oratorio e la sua funzione evangelizzatrice esigono una comunità cristiana capace di rendere i giovani protagonisti e costruttori della società del domani. Il compito degli educatori e degli animatori è la strutturazione, l’attuazione e la verifica degli itinerari educativi nel quadro di un progetto ben articolato. 

Una particolare responsabilità compete alla famiglia la cui soggettività educativa deve modularsi in modo da favorire la tipicità del luogo che, nel rispetto degli spazi propri destinati ai ragazzi e ai giovani, deve rimanere tipicamente giovanile. L’oratorio, infatti, si configura come ambiente di condivisione e di aggregazione giovanile, dove i genitori trovano un fecondo supporto per la crescita integrale e il discernimento vocazionale dei propri figli. 

La finalità principale dell’oratorio è rispondere al desiderio di felicità, alla ricerca della verità e al bisogno di comunione fraterna dei ragazzi e dei giovani per aiutarli a percorrere un cammino di autentico discernimento verso la piena maturità. Attraverso i linguaggi del mondo giovanile, l’oratorio promuove il primato della persona e la sua dignità favorendo un atteggiamento di accoglienza e di attenzione, soprattutto verso i più bisognosi. Naturalmente la promozione e l’organizzazione dell’oratorio deve svilupparsi e integrarsi, in una forma sinergica e condivisa, con la pastorale giovanile. 

Mantenendo queste finalità, ma tenendo conto della particolare situazione del territorio diocesano, nel programma pastorale di quest’anno abbiamo auspicato che l’oratorio «diventi il luogo per un nuovo laboratorio di dialogo intergenerazionale tra anziani e ragazzi, attraverso la presenza qualificata di educatori e animatori. Occorre pensare l’Oratorio come uno spazio aperto alle persone anziane, sempre più isolate nelle loro case, coinvolgendole con le loro competenze e qualità, nel dialogo educativo con i più giovani, come già avviene nei Grest estivi e nei campi-scuola parrocchiali. Pertanto, si invitano le comunità parrocchiali, dotate di oratorio o di spazi sociali, ad elaborare delle progettualità in cui rendere intergenerazionali tali spazi, con una attenzione particolare alla valorizzazione degli anziani e delle persone fragili della comunità».

Caro don Gianni, queste sintetiche indicazioni pastorali delineano la spiritualità e le attenzioni che devono animare la tua azione di guida di questa comunità parrocchiale di Morciano. La tua ricca esperienza e la tua saggezza costituiscono solide basi per un fruttuoso cammino pastorale. Auguri a te e ai tuoi parrocchiani. 


[1] L’espressione della Lettera agli Ebrei è ripresa da Paolo VI, Evangelii nuntiandi, 76 e da Francesco, Evangelii gaudium, 150.

[2] A Diogneto, 5,5.

[3] Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte, 31.

[4] Id., Christifideles laici, 26.

[5] Id., Novo millennio ineunte, 43.

[6] Id., Christifideles laici, 27.

[7] Cfr. Lumen gentium, 9.

[8] Paolo VI, Inaugurazione della parrocchia di S. Giovanni Crisostomo, Roma 16.3.1969.

[9] Giovanni Paolo II, Christifideles laici, 27.

[10] Cfr. CEI, Il laboratorio dei talenti, Nota pastorale sul valore e la missione degli oratori nel contesto dell’educazione alla vita buona del Vangelo, Roma, 2 febbraio 2013.

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