La vita consacrata è un riflesso della luce taborica – Diocesi Ugento Santa Maria di Leuca

 
 

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Omelia nella Messa della Presentazione di Gesù al tempio, festa della vita consacrata,
chiesa Collegiata SS. Salvatore, Alessano, 2 febbraio 2024.

Cari consacrati e consacrate,
la celebrazione della Presentazione di Gesù al tempio è una festa di luce. Quasi per contrasto, essa si celebra nel periodo invernale, caratterizzato dall’oscurità e dal freddo. L’antitesi, però, accentua il suo valore simbolico. La luce di Cristo, infatti, splende nelle tenebre, il suo chiarore illumina l’oscurità e il suo calore riscalda i cuori. La consuetudine di benedire, accendere le candele e portarle in processione esprime il desiderio del cristiano di andare incontro a Cristo, «luce vera che illumina ogni uomo» (Gv 1,9). Il vecchio Simeone è simbolo di ogni persona consacrata, in attesa di intravedere questa luce, accoglierla nella propria vita e presentarla al mondo come «luce per illuminare le genti» (Lc 2,32). 

L’icona di Cristo trasfigurato

Il mistero di Cristo è splendore di luce. La Presentazione di Gesù al tempio manifesta il chiarore intermedio tra la luce del Natale e quella della Pasqua, anticipando nell’infanzia la luce che si manifesterà nella trasfigurazione. La luce che risplende nel tempio di Gerusalemme (cfr. Lc 2,32; Ml 3,1-4) e quella che apparirà sul monte Tabor (cfr. Mt 17, 1-9; Mc 9, 2-13; Lc 9,28,36), )si richiamano vicendevolmente. Il loro splendore si raccorda con il fascino luminoso che emana dalla grotta di Betlemme e con il radioso chiarore che splende nel giardino della Pasqua. La luce natalizia, infatti, è apparizione della bellezza divina nella fragile umanità di Gesù Bambino. La luce pasquale è la bellezza dell’umanità di Cristo, riscattata dalla morte e splendente di gloria. La luce della Presentazione di Gesù è la manifestazione anticipata della bellezza di luce che rifulge nella sua trasfigurazione, nella quale il mistero della discesa della divinità nel tempo si congiunge con il mistero dell’ascesa dell’umanità nella gloria.

La luce che risplende sul monte Tabor sta tra l’inizio e la fine ed è condensata nel frammento della santa umanità di Cristo, nella quale la bellezza della natura divina irrompe e attrae a sé la natura umana. L’alfa e l’omega si congiungono. Il grido iniziale «sia la luce» trova il suo compimento nell’esito finale dell’eterna bellezza e la sua espressione intermedia nel corpo trasfigurato di Cristo. Lasciandosi attirare dal potente fascio di luce che emana dal Tabor, i consacrati fanno «un’esperienza singolare della luce che promana dal Verbo incarnato»[1] e dal Cristo risorto per diventare una luminosa icona della sequela del Maestro nella totale donazione della propria vita e riprodurre nella Chiesa e nel mondo, mediante i consigli evangelici, «i tratti caratteristici di Gesù – vergine, povero ed obbediente»[2].  

La luce taborica

Nella luce della divina umanità di Cristo trasfigurato, anticipata nel mistero della sua Presentazione al tempio, risplende il triplice splendore della sua bellezza: la bellezza increata, la bellezza creata, la bellezza redenta. Cristo trasfigurato manifesta innanzitutto la bellezza increata della sua divinità. La sacra scrittura afferma: «Dio è luce e in lui non vi sono tenebre». In Cristo si manifesta la luce divina del Verbo eterno che splende nel tempo come «luce del mondo» (Gv 8,12; 9,5; cfr. 12,35-36.46) per rischiarare il senso della vita rivelando il volto nascosto del Padre. In Cristo, infatti, «era la vita e la vita era la luce degli uomini» (Gv 1,4).

Cristo trasfigurato rivela anche la bellezza della creazione non ancora intaccata dal peccato. La parola iniziale che dà origine a tutto è: «Fiat lux» (Gen 1,3). La luce viene creata all’inizio del mondo[3] e segna la sua destinazione finale (cfr. Ap 21,9–22,5). Dall’inizio alla fine, il progetto di Dio è un progetto di luce. Certo, la luce creata è intervallata anche dalle tenebre. La separazione tra luce e tenebre crea l’«ordine» basilare del tempo e il ritmo fondamentale della vita. Se non ci fosse la luce non esisterebbe il tempo ed anche non potrebbe esistere. Il movimento di alternanza tra luce e tenebre non le mette sullo stesso piano: rimane la superiorità della luce sulle tenebre. La luce, infatti, «splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno vinta» (Gv 1,5).

Ogni giorno la bellezza della luce di Cristo è presente nell’armonia di tutti gli elementi. Ci viene incontro, risplende davanti al nostro sguardo perché possiamo vedere il Tutto che dimora nel frammento. A noi il compito di riconoscere il volto luminoso di Cristo, accogliere la sua misteriosa presenza, lasciarci illuminare dalla sua luce immortale. La luce abissale dell’inizio e dell’ottavo giorno non è altro che la partecipazione misteriosa alla vita della Trinità. La Trinità pervade di sé tutte le cose: tutto è creato in Dio, tutto riposa nella sua luce, tutto è immerso nel cerchio delle relazioni d’amore delle tre persone divine. Così tutto acquista una nuova dimensione: «Il primo giorno della creazione […] non è il primo, ma l’uno e l’unico. È l’alfa che già porta e chiama il suo omega, l’ottavo giorno dell’accordo finale, il Pleroma»[4].

Come sarebbe bello, cari consacrati, se ogni mattina, contemplando la luce del giorno, provassimo l’emozione di essere come al primo giorno della creazione e ci rammentassimo che tutta la nostra vita deve essere illuminata da Cristo. Egli, come sole di giustizia, mostra la bellezza della redenzione. Al piano meramente creaturale si aggiunge quello nuovo e gratuito della redenzione e dell’elevazione della natura umana alla partecipazione della vita divina. La luce che irradia dalla creazione e dalla redenzione unifica l’inizio e il compimento e, come una trama nascosta, custodisce la bellezza di tutto ciò che esiste: «La fine e il principio comunicano tra di loro al di sopra del tempo […] Si tratta dunque di esaminare l’esistenza storica alla luce dell’alfa e dell’omega»[5]

Cristo «volto umano di Dio» si rivela a noi mediante la luce taborica[6]. Il divino venuto nella storia non fa concorrenza all’umano, ma lo assume, lo esalta e lo valorizza, orientando il suo destino ultimo verso la bellezza di quella luce che non tramonta. La verità dell’uomo non nasce dunque dall’uomo. Egli è pura recettività, accoglienza di un amore che lo ha creato e continuamente lo rinnova. «La luce taborica, pertanto, non è soltanto l’oggetto della visione, ma ne è anche la condizione […]. È la trasformazione dell’uomo in luce, e la visione attraverso l’occhio divino alla quale tutto l’uomo è associato, quando Dio si guarda in noi»[7].

I consacrati, un riflesso della luce taborica

La luce taborica, come quella solare, non è monocromatica, ma è come l’arcobaleno. Dopo un temporale le goccioline d’acqua, ancora presenti nell’atmosfera, si comportano come prismi, e, attraversate dalla luce la scompongono nei sette colori dando origine, appunto, all’arcobaleno. Ciascun colore spettro contiene a sua volta molte altre gradazioni. 

 Riflessione e rifrazione sono i due fenomeni della luce naturale. Quasi tutti gli oggetti fanno rimbalzare la luce, cioè la riflettono. In questi casi, il fascio luminoso incide su una superficie e, anziché attraversarla o essere assorbito, viene reindirizzato nello spazio. Si ha la rifrazione quando la luce, passando da una sostanza trasparente a un’altra, cambia leggermente direzione. 

Voi consacrati siete e dovete essere “persone trasfigurate”, luce taborica che si riflette e si rifrange nel mondo. Siete lo specchio vivente che accoglie e rinvia la bellezza di Cristo trasfigurato. Assorbite la luce e la spandete nel vostro ambiente di vita. Vivete nel mondo senza essere del mondo. Condividete la vita di tutti, ma non vi conformate alla mentalità mondana. Avete i piedi ben piantati in terra e lo sguardo rivolto al cielo. Purificate il cuore e lo lasciate libero da ogni affetto particolare per amare ogni persona che incontrate nel vostro cammino. Condividete le gioie e le sofferenze dei vostri fratelli e sorelle e siete già partecipi della «sorte dei santi nella luce» (Col 1,12). 

A voi, cari consacrati, si addicono le parole di Gesù: «Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,14-16).

Il luminoso riflesso della luce taborica nella vita monastica 

Con questa liturgia diamo inizio all’anno giubilare per il XXV anniversario di fondazione del monastero delle Clarisse Cappuccine. La comunità monastica è la città posta sul monte (cfr. Mt 5,14) perché irradi la luce di Cristo su tutta diocesi. Non è fuori dalla nostra vita ordinaria, ma si situa nell’oscuro cammino del tempo, rischiarandolo dall’alto[8]. Con la sua silenziosa presenza, ricorda a tutti che la contemplazione precede e nutre la vita attiva, l’esperienza mistica è fondamento dell’azione pastorale, la dossologia pervade e plasma l’esercizio del “logos”. Non è, infatti, «la conoscenza che illumina il mistero, è il mistero che illumina la conoscenza. Noi possiamo conoscere solo grazie alle cose che non conosceremo mai»[9].

La vita contemplativa consiste nella purificazione del cuore e dello sguardo per amare Cristo con cuore indiviso e contemplare il suo volto con un animo colmo di gratitudine. L’occhio ha bisogno della luce per vedere. Nel vangelo di Matteo, Gesù dichiara: «La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso; ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!» (Mt 6,22-23). Nel brano parallelo, l’evangelista Luca aggiunge: «Se dunque il tuo corpo è tutto luminoso, senza avere alcuna parte nelle tenebre, sarà tutto nella luce, come quando la lampada ti illumina con il suo fulgore», (Lc 11,36). La vita di colui che ha lo sguardo puro è capace di diffondere la luce. 

Con le parole di san Gregorio Magno ricordo alla comunità monastica che «la vita contemplativa comincia qui, per raggiungere il suo compimento nella patria celeste; perché il fuoco d’amore che qui comincia ad ardere, quando si vedrà colui che si ama, arderà maggiormente d’amore per lui. Perciò la vita contemplativa non sarà affatto tolta perché, venuta meno la luce del mondo presente, raggiungerà la perfezione»[10].

Auguro a tutti voi consacrati di essere “persone trasfigurate” e alla comunità monastica di vivere l’anno giubilare con lo scopo di accendere in tutti, soprattutto nei giovani, l’amore per la dimensione contemplativa della vita. 


[1] Giovanni Paolo II, Vita consecrata, 15.

[2] Ivi, 1.

[3] Cfr. R. Vignolo – L. Giangreco, Luce e tenebre, in R. Penna – G. Perego – G. Ravasi, Temi teologici della Bibbia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, pp. 774-780; H. Ritt, «φῶς, φωτός, τό», in H. Balz – G. Schneider, Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 2004, cc. 1853.

[4] P. Evdokimov, La teologia della bellezza. Il senso della bellezza e l’icona, Paoline, Roma 1971, p. 17.

[5] Id., La donna e la salvezza del mondo, Jaca Book, Milano, 1980, pp. 17 e 22.

[6] Id., La teologia della bellezza, cit., p. 26.

[7] Ivi, p. 269ss.

[8] Cfr. P. Evdokimov, La conoscenza di Dio secondo la tradizione orientale, Paoline, Roma 1969.

[9] Id., La donna e la salvezza del mondo, cit., p. 13.

[10] Gregorio Magno, Omelia su Ezechiele,II,2,9.

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