O Dio, abbi pietà di me – Diocesi di Andria

 
 

Letture:
Sir 35 12-14.16-18
Sal 33
2Tm 4,6-8.16-18
Lc 18, 9-14

Ancora una pagina del Vangelo che ci fa riflettere sulla preghiera. Potremmo iniziare la nostra riflessione con questa affermazione: Dimmi come preghi e ti dirò che cristiano sei. La preghiera è il criterio che ci fa vedere nella giusta luce la relazione profonda che ciascuno di noi ha con Dio. Domenica scorsa, ricordate, c’era come modello la povera vedova che pregava con insistenza il giudice per avere giustizia e alla fine la ottiene, nonostante il giudice fosse cattivo. Il giudice l’accontenta per togliersi il fastidio, non per amore della giustizia. E Gesù prende spunto da questa parabola per dire: “Vedete, sono i cattivi a alla fine, pur di togliersi i fastidi di mezzo, concedono quello che gli viene chiesto; figuriamoci Dio che è buono! Però voi dovete pregare con più insistenza”. Il pregare con insistenza significa essere veramente convinti che la nostra vita è nelle mani di Dio e che tutto viene da Lui, e significa poi chiedere non soltanto benefici materiali, ma ricordare in ogni momento che solo in Dio noi troviamo il senso alla nostra vita, solo nella parola del Signore troviamo la risposta ai problemi più grandi che noi ci portiamo dentro e che forse non diciamo a nessuno, nemmeno alle persone che ci stanno più vicine. Ecco, questo significa pregare con insistenza, avere un contatto sempre aperto con Dio; e all’interno di questo contatto fluisce la vita come invocazione, come supplica, come richiesta di perdono.

Ebbene, se la volta scorsa si parlava della preghiera insistente, oggi si parla della preghiera umile ed è ancora con una parabola che Gesù ci lascia il suo insegnamento. “Due uomini salivano al tempio a pregare: uno era pubblicano – dice Gesù – l’altro era fariseo”. I due pregano diversamente. Ricordiamo che i farisei, al tempo di Gesù, erano delle brave persone, soltanto che in mezzo a loro qualche volta c’era qualcuno che, abusando della sua condizione, faceva sfigurare poi tutti gli altri. Spesso tra i farisei c’era qualcuno che aveva un concetto troppo alto di sé e dunque quando si metteva in preghiera davanti a Dio la sua più che una vera preghiera era una sorta di autocelebrazione: “Ti ringrazio, o Dio, perché non sono come gli altri uomini; gli altri sono ingiusti, ladri, adulteri, io invece no…”. Ecco, ditemi voi se si può pregare così! E non è soltanto un confronto con gli altri in generale, ma anche col pubblicano, con l’altro che stava a pregare accanto a lui: “… e ti ringrazio perché non sono come questo pubblicano”.

Lui, insomma, nel mettersi di fronte a Dio, si esalta, si gonfia di orgoglio, di presunzione: “Io digiuno due volte la settimana, pago le decime”, che equivale a dire, traducendo in termini attuali: io sono devoto, io vado a messa tutte le domeniche e nelle feste, io faccio le belle offerte alla madonna, ai santi, quando è la festa poi…, quindi io mi considero una persona giusta, una persona perbene, corretta, devota, pia, tanto devota e pia che ho più di un motivo per disprezzare tutti gli altri. Ed ecco che qui la sua preghiera lo condanna. Dice Gesù: “L’altro, invece, il pubblicano non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma, raggomitolato su sé stesso, riusciva a dire solo questo: Abbi pietà, o Signore, di me peccatore”. Questi, dice Gesù, tornò a casa sua giustificato, l’altro no. L’altro tornò a casa sua condannato dalla sua stessa preghiera.

Qual è la riflessione per noi? Stiamo attenti, carissimi, perché a volte facciamo troppo gli “spiritualisti”, ci vantiamo della nostra religiosità, delle nostre pratiche, delle nostre devozioni, ci vantiamo delle nostre osservanze, però dentro siamo cattivi, al punto tale che non ci facciamo nemmeno scrupolo se nel cuore abbiamo sentimenti di disprezzo verso gli altri. Proviamo a chiederci oggi: quando ci siamo confessati abbiamo mai detto: “Ho disprezzato gli altri”? Penso proprio di no. Chi di noi l’ha mai fatto? Mai! Non lo pensiamo neanche come peccato, non ce ne rendiamo neanche conto, la coscienza cioè si è addormentata! E così è in tante altre cose. È qui il vero problema: che noi continuiamo in una fede falsa, fatua che ci gratifica perché facciamo certe iniziative e riescono bene. “Che bella festa! Quanta gente! Che bella messa!”, ma nel cuore siamo sempre gli stessi, non cambiamo mai, anzi addirittura ci facciamo scudo con quella falsa religiosità per sentirci a posto ma non siamo a posto proprio per niente.

Qual è, dunque, l’atteggiamento corretto da tenere davanti a Dio? Non quello di farsi vanto, perché, mettiamo pure che qualche cosa di buono c’è nella nostra vita, è grazia di Dio, mica è merito nostro. Chi ci autorizza a giudicare gli altri, a condannare, o addirittura, come dice il vangelo oggi, a disprezzare? Eppure lo facciamo. Quanti di noi facciamo confronti di questo tipo. Quanti giudizi, a volte non espressi, ben mascherati, ma la verità è che spesso ci disprezziamo gli uni gli altri, non ci vogliamo bene. Dice san Paolo nelle sue lettere: “Gareggiate nello stimarvi a vicenda”. Ma noi ci stimiamo a vicenda gli uni gli altri?

Intanto poi, tutti con le mani giunte a vivere le nostre devozioni. Come si può?! Il pubblicano, nella sua sincerità, ha ammesso quello che era e tornò a casa sua giustificato, l’altro tornò a casa sua condannato.

Mi voglio augurare, perciò, una cosa sola: che oggi, dopo questo incontro col Signore, usciamo da qui giustificati e non condannati dalla nostra stessa preghiera.


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