Testimonianza del Dott. Giuseppe GIGANTE, direttore regionale vicario INAIL

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Ho il privilegio di esercitare la mia professione all’interno della realtà territoriale pugliese, in una Istituzione Pubblica che pone al centro della sua missione, tra le altre competenze, il tema alla sicurezza sui luoghi di lavoro.

Più in particolare, in qualità di dirigente dell’INAIL   mi occupo ormai da molti anni non solo di infortuni e malattie professionali sotto l’aspetto indennitario, ma altresì di analizzare come le politiche prevenzionali agiscano sui processi produttivi e sugli ambienti di lavoro e di quanto le attività di prevenzione contribuiscano a rendere i luoghi di lavoro più salubri e sicuri.

Non si tratta, come potrebbe apparire, di semplici analisi statistiche o di raffronti comparativi tra freddi numeri, ma di una sfida a 360 gradi dove il tema della dignità del lavoratore e della tutela della sua salute si lega a doppio filo con quello della produzione industriale ed agricola; dello sviluppo economico del territorio pugliese, della ricerca e l’innovazione dei processi produttivi per la creazione di una società più equilibrata nelle opportunità; ma altresì di come – e in che misura – i processi produttivi siano rispettosi del diritto all’integrità psico-fisica dei lavoratori, della salvaguardia dell’ambiente e del territorio di riferimento.

Queste considerazioni valgono a maggior ragione per la mia esperienza, per il mio vivere quotidiano, nella gestione delle malattie professionali della regione Puglia, dove Taranto purtroppo rappresenta la capofila, effetto in molti casi, soprattutto nelle patologie polmonari e tumorali, di emissioni e contaminazioni ambientali, circostanza quest’ultima che accomuna i lavoratori alla gente che vive a ridosso degli insediamenti produttivi e sotto le ciminiere, parimenti esposti alle medesime sostanze, senza contare le polveri e i fumi che contaminando l’atmosfera   producono effetti negativi in luoghi non sempre individuabili.

Fatta questa premessa, quello che registro dal mio personalissimo osservatorio regionale è che negli ultimi anni è aumentata la consapevolezza degli effetti della questione ambientale sulla collettività e sulla quotidianità, con il conseguente cambiamento dell’approccio alla problematica.

Vediamo ora in cosa si sostanzia questa consapevolezza.

In primis, è opinione comune che la tutela dell’ambiente va oltre la singola difesa delle categorie dei beni che rientrano nel concetto di ambiente, quali la bellezza dei paesaggi o la salubrità degli ambienti di vita.

In questo caso l’ambiente (mi riferisco in particolare a coloro che per lavoro passano gran parte della loro giornata in ambienti contaminati e per questo vivono con il timore di ammalarsi gravemente) non è più considerato solo un bene monetizzabile come accadeva in passato (dove l’aspetto indennitario sembrava avere la prevalenza su tutto), ma ha acquistato un valore di dignità, pari ad altri valori presenti nella Costituzione; insomma la salvaguardia dell’ambiente si è trasformata finalmente in un valore.

In secondo luogo è evidente che, se la qualità della vita delle persone dipende anche dalla qualità dell’ambiente, un esercizio pieno ed effettivo dei diritti che tutelano la salute individuale e collettiva, deve comprendere implicitamente anche la tutela  del contesto che ci circonda e nel quale viviamo. Questo sta a significare che finalmente è maturata la consapevolezza che la qualità dell’ambiente condiziona la qualità della vita sottolineando l’interdipendenza tra tutela dell’ambiente e difesa dei diritti fondamentali della persona umana.

In sintesi, quello che ho avuto modo di cogliere è che è opinione ormai diffusa che non rispettare l’ambiente significa non rispettare la comunità e le persone che la compongono.

 

Chiariti questi principi, le cose si complicano se affrontiamo la problematica da un altro punto di vista e cioè quello della necessità – o meglio del bisogno- di   integrare le esigenze di tutela ambientale con il sistema produttivo.

Orbene, fino a pochi anni fa questo rapporto è stato sempre disegnato in una prospettiva negativa, e cioè che l’ambiente è limite dello sviluppo industriale e quindi produttivo. Per quello che posso testimoniare, le stesse considerazioni valgono per la sicurezza sui luoghi di lavoro che – fino a qualche anno fa era opinione comune – costituisse impaccio alla produzione.

Uso un riferimento, che origina dalla mia esperienza professionale ma ho bisogno di fare un parallelo per spiegare più chiaramente: quando sono nato 50 anni fa si registravano circa 4600 infortuni mortali in Italia all’anno, senza considerare quelli in itinere che sono stati ricompresi nella tutela dell’INAIL solo molti anni dopo.

Bene, in quegli anni nessuno si scandalizzava per quei morti perchè si riteneva che quello fosse il giusto tributo di sangue che i lavoratori dovessero pagare allo sviluppo economico e produttivo del nostro paese.

Oggi i morti sono meno di 1000 e giustamente, con forza, sosteniamo che il principio che valeva negli anni ’60 del “giusto tributo allo sviluppo economico, al benessere di tutta la nazione”, questo principio, dicevo, è semplicemente aberrante.

Vediamo ora perchè mi sono servito di questo esempio: per molto tempo lo stesso è accaduto per le tematiche ambientali, dove il ricatto di cui dicevo (o produciamo o tuteliamo l’ambiente) si è ripetuto forse anche in maniera più subdola, deprendando il territorio, devastandolo pagando di fatto un tributo che oggi ci appare molto alto e insostenibile. Inoltre vi è una circostanza aggravante e cioè che, allo stato attuale è molto difficile definire con precisione le conseguenze negative di una dissennata politica ambientale, per cui al massimo possiamo avvalerci di indicatori, di sensori, per capire a cosa ci sta portando questa situazione.   Ed in questo contesto penso che la mia esperienza possa essere utile, ripeto, non per elaborare un preciso bilancio, ma almeno per elaborare indicatori utili a convincerci che occorre, in maniera ancora più incisiva, cambiare rotta.

Permettetemi pertanto un’altra incursione sul mio vissuto ma ho bisogno di dare testimonianza di quella che e’ la situazione del territorio pugliese.   Il mio Istituto come noto si occupa essenzialmente di due eventi collegati al lavoro: gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.

Gli infortuni sono eventi lesivi immediati, legati a fattori spesso di natura prevenzionale, di formazione, di organizzazione etc.

Le malattie professionali (da ora mp) sono condizioni patologiche che scaturiscono dagli ambienti di lavoro, che nel lavoro trovano la loro causa.

Tra queste cause sicuramente ci sono quelle di natura ambientale e questo è un dato ormai scientificamente provato.

Qualcuno si starà chiedendo come le mp di tipo ambientale possano essere utile indicatore. Chiarisco subito.

Se una fabbrica produce fumi i lavoratori con molta probabilità contrarranno mp legate all’apparato respiratorio (e di questo se ne occupa l’INAIL). Altrettanto accadrà a coloro che vivono più o meno a ridosso di quell’insediamento produttivo.

E’ chiaro che non ho dati per questi ultimi perchè non rientra nelle mie competenze ma posso dire (ecco l’indicatore) che con ogni probabilità se aumentano le mp all’apparato respiratorio per i lavoratori esposti, allo stesso modo altre persone non lavoratori contrarranno probabilmente la stessa malattia. In questo caso non saranno qualificate come professionali ma sempre di malattie si tratta. In altre parole se studio il fenomeno delle mp legate ai fumi, alle polveri etc. allo stesso modo potrò capire, con una ragionevole approssimazione, cosa succede nell’ambiente e di come quei fumi influiscono sulla salubrità dell’aria.

Entriamo nel vivo. Cosa dicono i numeri?

Intanto ci dicono che diminuiscono gli infortuni (dato positivo ma che in questo contesto non interessano) ma aumentano le mp.

Erano circa 2000 in Puglia nel 2009, sono 2900 nel 2013.

Mi spiego meglio. È pur vero che il lavoro è diminuito ma questo fenomeno in riduzione lo avevamo già notato anche quando la produzione era piena in Puglia: c’è una maggiore sensibilità verso la prevenzione degli infortuni che oggettivamente fanno più clamore; c’è nè meno, purtroppo, per la prevenzione delle mp e, per quello che ho detto in premessa, alle tematiche ambientali.

Andiamo un pò più a fondo.

La Puglia è lunga circa 500 Km.

Gli insediamenti produttivi sono diversi ma un elemento è purtroppo comune: l’ambiente, e per quanto possa essere cambiato l’approccio, non ha tutto il rispetto che merita. E guardate bene che non è una prerogativa dell’industria pesante.

In agricoltura per esempio in più di qualche occasione abbiamo registrato un uso improprio di anticrittogamici che finiscono per intossicare in primis chi li usa (mp) e poi finiscono sulle nostre tavole.

Altro dato: non tutte le province sono uguali. Osserviamo i dati 2013.

Se guardiamo Bari, il dato provinciale rappresenta in tema di Mp (tutte) il 17 % del dato regionale . Lo stesso dicasi per Lecce .

Taranto il 36 %

La cosa si complica su quelle a rilevanza ambientale.

Limito la mia indagine sulle malattie professionali che interessano l’apparato respiratorio, i tumori e le malattie asbeto correale (insomma l’amianto).

Per sintesi, ho elaborato un unico dato statistico. Sembra impossibile tenuto conto delle dimensioni delle provincie, ma Bari e Brindisi si equivalgono: Bari 19%; Br 14%.

Taranto,   tanto per cambiare il 55% del dato regionale. Comprendiamo quindi che i danni sono evidenti e sotto i nostri occhi (saranno pure indicatori parziali ma di certo sufficienti a fare chiarezza sulla situazione della nostra regione) e comprendiamo inoltre che si rende indispensabile promuovere uno sviluppo sostenibile, per definire un nuovo modello di convivenza, basato sulla valutazione della crescita economica  non solo in termini quantitativi, ma anche in termini qualitativi, ossia per gli effetti di ricaduta sull’ambiente e, conseguentemente, sulla qualità della vita stessa.

Non dimentichiamo per altro che il rapporto uomo-natura è sempre esistito; ciò che occorre mutare è l’atteggiamento dell’uomo nei confronti dell’ambiente, ossia il valore che l’uomo attribuisce all’ambiente.

Se, infatti, fino ad un periodo poi non molto lontano, l’ambiente era visto, per lo più, come uno spazio più o meno liberamente appropriabile, negli ultimi anni la rilevanza dell’ambiente ha assunto connotati diversi, soprattutto in quanto luogo in cui l’uomo vive, sviluppa la sua personalità, in cui si realizza come essere sociale: l’ambiente diviene, allora, una proiezione della persona e la qualità dell’ambiente un aspetto essenziale del modo di essere in simbiosi con il Creato.

Per il mio ruolo all’interno dell’Istituzione in cui opero; per quello che ogni giorno tocco per mano, penso che l’affermazione del diritto ad un ambiente salubre rappresenti il viatico più efficace per ragionare seriamente anche del diritto alla salubrità degli ambienti di lavoro soprattutto in una città come questa che vede lavoro e salute paradossalmente in contrasto; lì dove nel mezzo ci sono i lavoratori nei confronti dei quali ognuno avverte ancora di più doveri e desiderio di protezione sia del Diritto al lavoro che del diritto alla salute.

Aggiungo un’altra considerazione.

L’ambiente non può non essere rilevato anche quale luogo di socializzazione. In altre parole l’ambiente, pur essendo un qualcosa di esterno alla persona, diventa un momento condizionante il modo di essere dell’individuo in quanto è la sfera nel quale egli quotidianamente vive ed opera il valore della vita si estende anche a ciò che lo circonda: e quindi se volgiamo proteggere l’uomo è nostro dovere come cristiani proteggere anche l’ambiente di cui si fa parte.

 

È circostanza universalmente riconosciuta che la crisi ambientale abbraccia l’intero globo, sia perché gli effetti inquinanti non sono sempre circoscrivibili, sia perché è lo stesso modello di sviluppo del sistema economico mondiale che si pone come foriero di ingiustizie ambientali, oltre che sociali. Per questa ragione sempre più spesso si parla di sviluppo sostenibile proprio per indicare la necessità di inserire la difesa dell’ambiente nel contesto più ampio delle problematiche inerenti la sostenibilità dell’attuale modello economico e le prospettive di sviluppo dei paesi più poveri del mondo: in tal senso, lo sviluppo sostenibile è lo sviluppo che tiene in considerazione non solo le esigenze di crescita economica, ma anche l’uomo e la natura e ha per fondamento sia l’ecologia che la giustizia.

La Dottrina Sociale della Chiesa ci offre un indispensabile orientamento ideale per affrontare una questione tanto decisiva per il futuro dell’umanità.

Giovanni Paolo II, nell’Enciclica Centesimus Annus, ci insegna che “l’uomo realizza se stesso per mezzo della sua intelligenza e della sua libertà e, nel far questo, assume come oggetto e come strumento le cose del mondo e di esse si appropria”, affermando così il primato dell’uomo sulle risorse umane, il primato del sapere sull’avere. L’uomo dunque è chiamato a realizzare se stesso attraverso il proprio lavoro, la propria creatività, costruendo un sistema economico basato sulla libertà nel settore dell’economia inquadrato in un solido contesto giuridico capace di orientarla verso il bene comune.

Quello che posso dire per la mia esperienza con amarezza è che lo sviluppo economico non può essere causa di malattia, nè può essere come spesso accade una condanna alla malattia.

Allo stesso modo, come qualcuno sostiene, la risposta all’emergenza ambientale non può, troppo semplicisticamente, essere quella di arrestare il progresso e l’iniziativa economica. Ne risulterebbe frustrato l’uomo, posto nella condizione di non poter più realizzare se stesso.

Tuttavia, la tematica ecologica non può certo rimanere ai margini del dibattito politico-economico mondiale; il rischio – altissimo, e non solo per le generazioni future – è quello di finire per considerare il rispetto dell’ambiente e della salute come un mero costo di produzione, un pesante fardello per la competitività delle imprese di cui è necessario privarsi per reggere la concorrenza dei Paesi emergenti.

L’unica risposta seria sarebbe riconsiderare i termini della questione, attribuendo tanto all’economia quanto alla natura il ruolo di strumenti per l’uomo. Strumenti che, come tali, sono neutri; né buoni, né cattivi dunque ma bisognosi di un orientamento ideale, di un fine alto.

La Centesimus Annus spiega magistralmente come “non solo la terra è stata donata da Dio all’uomo, che deve usarla rispettando l’intenzione originaria di bene, secondo la quale gli è stata donata; ma l’uomo è donato a se stesso da Dio e deve, perciò, rispettare la struttura naturale e morale di cui è stato donato”.

Non dimentichiamo che la natura è per l’uomo e l’uomo è per Dio. Essa è il teatro culturale e morale nel quale l’uomo gioca la propria responsabilità davanti agli altri uomini, essa è una ricchezza posta nelle mani prudenti e responsabili dell’uomo su cui questi è chiamato ad esercitare un mandato di conservazione e non un diritto assoluto.

Dunque, diversamente da quanto si è soliti pensare, il cuore del problema ecologico e della nostra responsabilità verso le generazioni future – almeno in questo ambito – non è né esclusivamente politico, né tecnico, ma è antropologico.

L’ecologia non è soltanto un’emergenza naturale ma antropologica poiché il modo di rapportarsi alla natura dipende dal modo di rapportarsi dell’uomo con se stesso. Occorre dunque, attraverso le istituzioni, la cooperazione internazionale e regole giuridiche, governare e promuovere un nuovo modello di sviluppo di tipo integrale, perché capace di porre al centro l’uomo (con i suoi bisogni presenti e futuri); di riorientare i comportamenti umani uscendo dalla logica del mero consumo; di considerare attentamente la necessità di rispettare l’integrità e i ritmi della natura, poiché le risorse naturali sono limitate e, alcune di esse, non rinnovabili.

Urge insomma, un nuovo modello di sviluppo fondato sulla consapevolezza della sempre crescente interdipendenza che lega tra loro tutti gli abitanti della terra e su un nuovo patto responsabile e cosciente tra l’uomo e la natura.

Se tutto questo non bastasse la vicenda nel nostro territorio si complica ulteriormente per il fatto che il lavoro che non c’è e ci mette con le spalle al muro, ci toglie il respiro, ci chiama alle nostre responsabilità come cristiani in primo luogo e come cittadini. Non manca solo il lavoro per i giovani: Il lavoro manca e basta. Il che è motivo di angoscia per una parte cospicua delle famiglie italiane perchè nel lavoro c’è la ragione della tranquillità delle persone, della progettualità delle famiglie, del futuro dei giovani. Papa Francesco a Cagliari il 22 settembre del 2013 ha detto: “ Lavoro vuol dire dignità, lavoro vuol dire portare il pane a casa, lavoro vuol dire amare!”.

Quello che registriamo è che questi livelli di disoccupazione stanno rendendo sempre più complicato coniugare le esigenze del lavoro con quelle dei diritti dei lavoratori e delle tutele ambientali. Non possiamo esimerci dal sottolineare che spesso si tratta di un vero ricatto, nel quale le persone devono decidere tra l’una o l’altra opzione.

Di fatto la grave crisi occupazionale costringe sempre più persone, loro malgrado, ad accettare sui propri territori attività potenzialmente dannose per la salute e l’ambiente nonché condizioni di lavoro vessatorie, a costo di mettere a repentaglio la propria vita, a costo di offendere in modo sconsiderato l’ambiente e questo sino al paradosso nel quale i lavoratori stessi, pur di mantenere l’impiego, accettano o favoriscono condizioni platealmente lesive per il proprio futuro e per la vita dei propri figli, con l’unico risultato di consentire alti profitti ad attività ed imprese che in realtà sono dannose sia sul piano sociale che ambientale.

Mi avvio alle conclusioni.

La tutela dell’ambiente, della salute dei lavoratori e dei cittadini deve trovare un equo bilanciamento con il rispetto degli altri diritti fondamentali costantemente minacciati da uno sviluppo insostenibile che ne compromette il pieno godimento.

  • Nel delicato bilanciamento tra diritto al lavoro e diritto alla salute, come cattolici soprattutto non ci si può rassegnare all’immobilismo, ma bisogna pretendere il pieno rispetto delle regole.
  • Il tema della salubrità dell’ambiente è soprattutto una questione di democrazia e di effettività dell’esercizio dei diritti fondamentali della persona, e alle città va restituito il diritto ad affrancarsi da un ricatto occupazionale insopportabile,   nonchè dalla persistente condizione di bisogno che ormai interessa, da qualche anno, fette sempre di consistenti della popolazione. La questione ambientale è talmente fondamentale che non può essere trattata nè con “catastrofismi” nè con ideologie preconcette, abbandonando l’idea, che la risposta al quesito sia sempre – e a prescindere da qualsiasi altra considerazione – la chiusura dei siti produttivi.
  • La risposta è invece che è realizzabile, non solo auspicabile, una produzione con tecnologie che salvaguardino quanto più possibile l’ambiente e nel contempo preservi lo stato di salute dei lavoratori e della popolazione, soprattutto quelle che risiede nelle vicinanze dell’insediamento industriale.
  • Ciò è possibile solo ove, senza inutili proclami, spesso strumentali e fuorvianti, si colga la portata strategica della trasformazione di atti normativi ed amministrativi in investimenti concreti, in piani operativi scientificamente supportati, che si avvalgano del costante monitoraggio delle condizioni di salute della popolazioni esposta, puntuali stime delle emissioni inquinanti, della verifica e controllo di macchine e impianti rispetto sia alle prescrizioni e alle autorizzazioni, sia alle migliori tecniche ambientali.

Da ultimo l’alternativa salute o lavoro non è certo la migliore risposta   per risolvere i problemi del degrado ambientale e delle ricadute negative sulla salute di chi lavora e della popolazione. Ma soprattutto – e concludo – è del tutto evidente che lo sviluppo industriale ed occupazionale, non può essere antagonista all’ambiente, ma lo è solo un suo uso distorto fondato sulla ricerca del massimo profitto e dei consumi incontrollati.