Viviamo il tempo che ci è donato con gioia, realismo e speranza – Diocesi Ugento Santa Maria di Leuca

 
 

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Omelia nella Messa della solennità della Madre di Dio
Chiesa Cattedrale – Ugento, 1° gennaio 2024. 

Cari fratelli e sorelle,

questo giorno segna l’inizio dell’anno sociale e viene con il suo carico di novità, di auspici, di incognite. Per la Chiesa, il nuovo anno si apre nel duplice segno di Gesù Bambino e della Vergine Maria. Nell’ottava di Natale abbiamo contemplato la nascita del Verbo nella carne umana. In lui, l’umanità trova il centro e il fine della creazione e della storia. Attorno alla sua persona si avvolgono i fili del nostro tempo intrecciati in un groviglio inestricabile. Incontrare Cristo significa trovare il bandolo della matassa, individuando la soluzione nascosta che permette di sciogliere tutti i nodi e risolvere la questione delicata e oscura del significato dell’esistenza. Anche la Madonna risplende come un raggio di novità e di fiducia. In quanto Madre di Dio e Madre nostra ci custodisce con sentimento materno.  

Le macerie dell’anno trascorso 

Gli auguri che ci scambiano in questo giorno saranno scontati e ripetitivi se non avremo il coraggio di guardare la realtà con realismo e speranza. L’anno che si è concluso ci lascia alle spalle uno scenario desolante: le macerie causate dall’egoismo che nutre guerre e conflitti con la conseguente crescita della povertà, della sofferenza e della discriminazione; le macerie di una società disgregata, costretta all’isolamento e alla solitudine in cui l’esistenza sembra atrofizzarsi e l’orizzonte futuro sembra cancellato dall’ineluttabile susseguirsi degli eventi. 

La piaga dell’individualismo spinge alla cura di sé, ma al disinteresse nei confronti degli altri e dell’ambiente; lo sviluppo economico sembra viziato da una divisione sempre più netta tra i pochi ricchi che diventano sempre più ricchi e i molti poveri che diventano sempre più poveri; la crisi energetica crea un effetto domino sulle attività imprenditoriali e sui livelli occupazionali. 

Appare sempre più necessaria una rinnovata proposta educativa per non lasciare i giovani nelle spire di una fragilità, indotta dalla bolla digitale che pervade in modo maniacale ogni centimetro della loro e della nostra quotidianità, non lasciando spazio ad un futuro pieno di progetti e di nuove prospettive. 

La speranza di due poeti

Il tempo che ci è offerto è un invito a ricominciare, a ricostruire, a tornare a vivere. Anche il deserto può rifiorire e diventare uno splendido giardino. La famosa canzone di Lucio Dalla, “L’anno che verrà”, interpretò un diffuso sentimento popolare: la stanchezza per il clima di violenza e di difficoltà economiche e il desiderio di un ritorno alla sfera personale e ai sentimenti tradizionali. Realismo e speranza si alternano e diventano un canto comune. Secondo una certa interpretazione, l’amico a cui il cantante invia la lettera è Cristo e l’intera canzone è una accorata invocazione. 

Anche il poeta Clemente Rebora (1885-1957), nella sua poesia scritta nel 1920 Dall’immagine tesauniversalmente riconosciuta come il suo capolavoro, collega la ricerca della verità alla speranza che ponga termine alle inquietudini e alle incertezze. Il poeta è proteso verso qualcosa di imminente, che può giungere in qualsiasi momento, benché egli non aspetti nessuno in particolare. Bellissimi i versi conclusivi: «Non aspetto nessuno. / Ma deve venire, / verrà, se resisto / a sbocciare non visto, / verrà d’improvviso, / quando meno l’avverto. / Verrà quasi perdono / di quanto fa morire, / verrà a farmi certo / del suo e mio tesoro, / verrà come ristoro / delle mie e sue pene, / verrà, forse già viene / il suo bisbiglio».

L’attesa di Dio è l’unica certezza in grado di dare un senso all’esistenza. Per questo a conclusione della poesia, il verbo “venire” subisce una variazione e una progressione: «deve venire», come segno di una volontà e di una esigenza impossibile da sopprimere, divenuto poi «verrà», come compimento profetico di una certezza futura. Ripetuto cinque volte, il verbo si trasforma alla fine in un presente dubitativo («forse già viene»). Il «bisbiglio» finale è un indizio della presenza di Dio, confermato dalle parole che lo stesso Rebora disse a Montale: «La voce di Dio […] è sottile, quasi inavvertita, è appena un ronzio. Se ci si abitua, si riesce a sentirla dappertutto».

La gioia di vivere il presente

Il Natale ci presenta la bellezza di vivere il tempo presente come l’irruzione dell’eternità nell’esperienza umana. «È inesatto – afferma sant’Agostino – dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo e non vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l’attesa»[1].

In questa luce, il tempo non è solo uno scorrere anonimo e incalzante, ma è l’offerta di un dono; il dono più bello perché coincide con la nostra stessa vita. Essa si riceve, non si possiede. Non siamo padroni, ma semplici amministratori. Nessuno può allungare o restringere il suo tempo. Ci viene consegnato e dobbiamo accoglierlo come un prezioso regalo che ci consente di metterci alla ricerca di Cristo, incontrarlo in questa vita e goderlo nell’eternità. 

Il tempo è una benedizione di Dio. La nostra vita non è abbandonata a sé stessa, ma è protetta dalla mano benedicente di Dio. Siamo disegnati sul palmo della sua mano, non gettati nel vortice di forze oscure e malvagie. Sappiamo con certezza che, qualsiasi cosa accada, egli non ci lascerà soli[2]. Consolanti sono le parole di santa Giuliana di Norwich: «Vidi con assoluta certezza […] che Dio prima ancora di crearci ci ha amati, di un amore che non è mai venuto meno, né mai svanirà. Ed in questo amore egli ha fatto tutte le sue opere, e in questo amore la nostra vita dura per sempre […]. In questo amore noi abbiamo il nostro principio, e tutto questo noi lo vedremo in Dio senza fine»[3]. La benedizione di Dio è scoprire che Cristo viaggia con noi sulla stessa barca, anche se può sembrare che dorma. Insomma, la presenza di Cristo non è una magia, ma un esempio che ci insegna a vivere meglio. 

Il tempo è un «germoglio che spunta dal tronco» (Is, 11,1). Un miracolo, qualcosa di nuovo, di inatteso e di vitale può nascere da ciò che è un triste ceppo rinsecchito, e manifestarsi come un fresco ramoscello, mosso dalla brezza del vento. Non siamo come un seme infecondo, ma come un seme che marcisce sotto e fa spuntare un nuovo germoglio.

Il tempo, infine è un talento da far fruttificare non però come fosse una realtà quantizzabile e misurabile, ma come una possibilità di perfezionamento della propria persona. Oggi siamo soliti dire il «tempo vola» o il «tempo è denaro» cadendo così nella percezione dello scorrere del tempo come se la vita fosse una produzione di beni da guadagnare. Il tempo invece è una possibilità per imparare a vivere al cospetto di Dio, di sé stessi e degli uomini. Per imparare soprattutto che «siamo tutti del Signore e Cristo è tutto per noi: se desideri risanare le tue ferite, egli è medico; se sei angustiato dall’arsura della febbre, egli è fonte; se ti trovi oppresso dalla colpa, egli è giustizia; se hai bisogno di aiuto, egli è potenza; se hai paura della morte, egli è vita; se desideri il paradiso, egli è via; se rifuggi le tenebre, egli è luce; se sei in cerca di cibo, egli è nutrimento»[4]. Buon anno!


[1] Agostino, Confessioni, 11, 20-26.

[2] Cfr. M. M. Zuppi, Dio non ci lascia soli, Riflessioni di un cristiano in un mondo in crisi, Piemme, Milano, 2023.

[3] Giuliana di Norwich, Il libro delle rivelazioni, Áncora, Milano, 1977, cap. 86, p. 320.

[4] Ambrogio, La verginità, 16, 99.

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