A noi che siamo tra il vecchio e il nuovo anno – Diocesi Ugento Santa Maria di Leuca

 
 

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Omelia nella Messa del Te Deum – solennità di Maria SS. Madre di Dio
chiesa Cattedrale, 31 dicembre 2022.  

Cari fratelli e sorelle,

giunti alla fine dell’anno possiamo dire con il poeta: «A noi che siamo / tra il vecchio e il nuovo, / la sorte dona / queste ore liete; / e il passato impone / d’aver fiducia / a guardare avanti / e a guardare indietro»[1].  Celebriamo questa liturgia eucaristica con questo duplice sguardo: protesi in avanti e senza trascurare il tempo che abbiamo vissuto. Facendo festa per il tempo che verrà e per quello che è già trascorso forse è quasi naturale che le nostre labbra ripetano le parole del poeta: «Ancora un anno è bruciato, / senza un lamento, senza un grido / levato a vincere d’improvviso un giorno»[2]

La nostra esistenza è una tensione permanente e mai risolta in modo definitivo tra provenienza e attesa, eredità e promessa, gemito e inno. La storia non è solo tempo che passa, ma è anche tempo che dura e che attende. Ciò che chiamiamo il “vissuto” è come il fondamento invisibile, ma reale di ciò che viviamo e di quello che speriamo di vivere. Si intrecciano la paura e la speranza, il dolore e l’illusione, il sogno e il rammarico. 

La storia non è solo successione dei fatti, una serie di ricorrenze senza alcun nesso tra di loro, una deriva senza fondo che inevitabilmente giunge al suo termine, un fenomeno naturale mosso dall’inevitabile destino, impresso in ogni nascita, di giungere al suo compimento.  Insomma la vita non è un buco nero, ma una finestra che consente di guardare oltre e intravedere mondi ancora inesplorati. Così, mentre attendiamo con trepidazione ciò che si presenta ancora in modo oscuro e velato, misuriamo il ciò che non è più, ma ha lasciato una traccia sensibile che risuona dentro di noi, forse come una ferita, un rimprovero, un lamento.

Sono tre gli atteggiamenti che dovremmo esprimere in questa liturgia di fine anno: il lamento, la memoria e la confessione (confessio). Quanto al primo atteggiamento, possiamo dire che c’è il lamento dell’insoddisfatto e dello scontento![3] È una nota che dolente si ripete in modo assiduo e asfissiante con il suo carico di frustrazione per la mancanza di ragioni che diano un sapore alla vita. Talvolta diventa un’abitudine, motivata da un profondo egocentrismo sostenuto da una mancanza di empatia. Chi si lamenta spesso si concentra sugli aspetti negativi, le limitazioni, i danni, i disagi, i fallimenti e guarda ogni situazione con un paio di occhiali con le lenti grigie che percepiscono il mondo in modo oscurato. Sentendosi incapace o impossibilitato a trovare soluzioni adeguate e corrispondenti ai suoi bisogni, finisce per respirare un’atmosfera di frustrazione, tristezza e rabbia. Il lamento causa immobilità, influenza negativamente le relazioni interpersonali fino a creare un muro di separazione e di incomunicabilità. Si gioca così il ruolo della vittima, scaricandosi delle proprie responsabilità. Nato in modo spontaneo e quasi inavvertito, il lamento si trasforma poi in una recitazione, un’abitudine a sopravvalutare i conflitti per attirare l’attenzione degli altri. In realtà – afferma Vincent van Gogh – «soffrire senza lamentarci è l’unica lezione che dobbiamo imparare in questa vita».

C’è, però anche il lamento del povero e del giusto. Si tratta di un’invocazione fervida, implorante e accorata, che non conosce sosta. Con il loro grido, il povero e il giusto “svegliano” Dio ed egli li ascolta e li libera da tutte le loro angosce (cfr. Sal 34,19). Lamentarsi davanti a Dio non è peccato, ma una forma di preghiera (cfr. Sal 22; Ger 20; Gb 3) che attraversa le nubi né desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione e ristabilito l’equità. L’orante si sente attanagliato dalle sventure, e sembra che Dio sia lontano da lui. Si lamenta e interroga Dio con il gemito. Non viene meno però la sua fede e non si lascia sfiorare dal dubbio circa il soccorso di Dio. La sua sensibilità umana è ferita e sconvolta ma il suo cuore, pur saturo di tristezza, è fiducioso. Si sente braccato dal nemico, ma la salvezza portatrice di gioia gli giunge repentina, lo sorprende mentre è immerso nell’afflizione. Viene chiamato alla gioia mentre permane su di lui, per un effetto psicologico, la cappa della tristezza (cfr. Sal 13). E così può esclamare: «Hai mutato il mio lamento in danza, la mia veste di sacco in abito di gioia» (Sal 30, 11).

Per questo, accogliamo l’esortazione di Pablo Neruda: «Non incolpare nessuno, / non lamentarti mai di nessuno, di niente, / perché in fondo / tu hai fatto quello che volevi nella vita. / Accetta la difficoltà di costruire te stesso / ed il valore di cominciare a correggerti. / Il trionfo del vero uomo / proviene delle ceneri del suo errore. / Non lamentarti mai della tua solitudine o della tua sorte, / affrontala con valore e accettala. / In un modo o in un altro / è il risultato delle tue azioni e la prova / che Tu sempre devi vincere. / Non amareggiarti del tuo fallimento / né attribuirlo agli altri. / Accettati adesso / o continuerai a giustificarti come un bimbo. / Ricordati che qualsiasi momento è buono per cominciare / e che nessuno è così terribile per cedere».

Il secondo atteggiamento è coniugare insieme memoria e dimenticanza, come ha fatto Giacomo Leopardi che ha scritto due poesie: La dimenticanza e Le ricordanze. Esse si intrecciano in ogni momento dell’esistenza e disegnano quanto è intenso il sapore della nostra vita. Abbiamo diversi tipi di memoria e altrettanti tipi di dimenticanza. C’è una memoria che è guidata dalla nostalgia e ci porta a ricordare e, contemporaneamente, a desiderare di tornare al passato. C’è una memoria che ci permette di fare le cose di ogni giorno, ma si affievolisce con il passare del tempo, fino a dimenticare anche i più semplici gesti quotidiani. C’è la memoria scritta nel corpo che ci ricorda, attraverso le sensazioni, gli eventi del passato e le misteriose tensioni del presente. È una memoria che raramente svanisce. 

C’è la memoria ciclica – quella degli anniversari – che bussano alle porte del nostro calendario per ricordarci lo scorrere del tempo e la sua limitatezza. E poi c’è la “memoria del cassetto”, quella delle cose che abbiamo chiuso a chiave e teniamo lì, addormentate, fino a quando qualcosa o qualcuno non lo riapre improvvisamente. Allora tutto riemerge, come se fosse stato semplicemente congelato. Spesso la memoria del cassetto contiene segreti di cui non vogliamo parlare. Per questo li segreghiamo nella stanza del silenzio e dell’isolamento. Questa tipo di memoria sembra fatta di assoluta dimenticanza eppure nasconde una vividezza quasi sorprendente.

La terza parola è confessio. Alla ricognizione del passato vissuto all’insegna della colpa (confessio peccatis), si aggiunge la professione di fede (confessio fidei) che proclama i misteri della salvezza e la lode a Dio (confessio laudis) per cantare le sue meraviglie. Riconoscendo i nostri peccati siamo portati a lodare la misericordia di Dio, a chiedere il suo perdono e a cantare le sue lodi.  Così, secondo il saggio consiglio di Seneca, «ogni giorno per me è l’inizio di un nuovo anno, e io cerco di propiziarmelo con buoni pensieri che liberano l’animo dalle meschinità».            
Raccogliendo quanto vissuto in questo anno e disponendoci a ricevere il dono di un nuovo anno, rendiamo grazie al Signore e rivolgiamoci a lui con la preghiera di Tommaso Moro: «Dammi, Signore un’anima che non conosca la noia, i brontolamenti, i sospiri e i lamenti, e non permettere che io mi crucci eccessivamente per quella cosa troppo invadente che si chiama io». Confido solo in te, mio Dio.


[1] J. W. Goethe, Anno nuovo.

[2] S. Quasimodo, Già la pioggia è con noi, in Id., Poesie e discorsi sulle poesie, Mondadori, 1997.

[3] Cfr. M. Veneziani, Scontenti. Perché non ci piace il mondo in cui viviamo, Marsilio, Venezia, 2022.

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