Avere cura e dare sollievo alla sofferenza – Diocesi Ugento Santa Maria di Leuca

 
 

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Omelia nella Messa per il VII raduno nazionale delle città del sollievo
Tricase, 18 settembre 2022

Cari fratelli e sorelle,

celebriamo questa liturgia eucaristica per ringraziare il Signore a conclusione del settimo raduno delle 32 “Città del Sollievo” che quest’anno si è tenuto in questa città di Tricase (16-18 settembre), dove operano l’Ospedale Panico e l’Hospice, “Casa di Betania”. 

Il titolo di “Città del sollievo” è un attestato simbolico riconosciuto dalla Fondazione Gigi Ghirotti Onlus a quelle municipalità che attuano progetti e politiche sociali di solidarietà, di cura e di sensibilizzazione a favore dell’affrancamento dal dolore fisico e morale delle persone affette da una patologia severa o in fase terminale. Lo scopo mira a suscitare e promuovere il sollievo dalla sofferenza attraverso l’azione di associazioni locali di volontariato e di istituzioni sanitarie territoriali.

Istituita nel 2001 dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, la “Giornata del Sollievo” si prefigge di «promuovere e testimoniare, attraverso idonea informazione e tramite iniziative di sensibilizzazione e solidarietà, la cultura del sollievo dalla sofferenza fisica e morale in favore di tutti coloro che stanno ultimando il loro percorso vitale, non potendo più giovarsi di cure destinate alla guarigione». Un intenso lavoro è stato portato avanti in questi anni per la diffusione delle cure palliative e della cultura del sollievo. 

Ad ispirare questa lodevole prassi è la logica del buon Samaritano. Il racconto parabolico del Vangelo di Luca mette in fila dieci verbi per descrivere l’amore concreto rivolto a chi si trova in una situazione di sofferenza e di dolore. È una sorta di decalogo perché l’uomo sia promosso a uomo e la terra sia abitata da persone che hanno la forza di vedere, fermarsi e toccare le sofferenze di chi è malato. «La misura dell’umanità – ha scritto Benedetto XVI in Spe salvi – si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente. Questo vale per il singolo come per la società. Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la compassione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele e disumana»[1].

Al centro del messaggio della parabola evangelica c’è l’invito a prendersi cura di chi soffre, a dare sollievo e forza alla vita secondo il comandamento che invita a rispettare, difendere, amare e servire la vita[2]. La brama di vivere è una forza insita nella vita stessa. Non nasce da una decisione dell’uomo. Precede la volontà umana e regola il suo comportamento. È una dimensione oggettiva, prima di esprimersi come atteggiamento soggettivo. Soprattutto nel tempo della sofferenza, la vita non è muta, ma parla. Il suo linguaggio è chiaro e comprensibile a tutti. La sua voce è mite, umile, discreta. Non alza il tono, non ama gridare. Sussurra, suggerisce, interroga. Come un vento leggero e una brezza matutina sfiora l’intimo dell’anima e la invita a non rimanere inerte e indifferente. Ascoltare questa voce forte e suadente è un vero atto d’amore.

Si tratta di vedere e lasciarsi commuovere dalle ferite dell’altro, di fermarsi accanto alla vita che geme e soffre. Il dolore dell’altro non può lasciare indifferenti. Occorre farsi prossimo, condividerne le gioie e i dolori in profondità, con un atteggiamento di amorevole compassione, vibrando all’unisono con la sofferenza dell’altro. Nella fragilità dell’altro intravediamo la nostra fragilità. Il dolore di chi ci sta intorno ci costringe a riscoprirci esseri finiti, limitati, bisognosi dell’aiuto dell’altro. 

Siamo tutti sulla medesima strada. Ci salveremo insieme, o non ci sarà nessuna salvezza. Non c’è umanità senza compassione. Occorre, pertanto, compiere i gesti del buon samaritano. Soprattutto occorre avvicinarsi e toccare le ferite dell’altro. Toccare il corpo affetto da malattia significa sfiorare l’anima e nel fratello che soffre incontrare la carne di Cristo. 

Da qui l’importanza delle cure palliative «espressione più autentica dell’azione umana e cristiana del prendersi cura, il simbolo tangibile del compassionevole “stare” accanto a chi soffre»[3]. La sofferenza è il tempo e l’opportunità per costruire la fraternità, intesa non come un dato, ma come un compito che apre alla speranza e, come abbiamo ascoltato nella liturgia della Parola di questa domenica, testimonia la presenza di Dio Padre, difensore dei poveri e dei deboli, sempre pronto ad esaudire le richiese dei suoi figli che sono nella prova. 


[1] Benedetto XVI, Spe salvi, 38. 

[2] Cfr. Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, 5. 

[3] Congregazione della dottrina della fede, Samaritanus Bonus, Lettera sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita, 14 luglio 2020, V, 4. 

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