il discernimento del medico – Diocesi Ugento Santa Maria di Leuca

 
 

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Relazione al Convegno Formativo in occasione del
LIV anniversario dell’inaugurazione dell’ospedale,
sul tema Il ruolo delle professioni mediche nella tutela della vita
Tricase, 4 dicembre 2021

Le virtù teologali nell’esercizio dell’arte medica: il discernimento del medico

Ringrazio sentitamente i relatori, in particolare il Cardinale Edoardo Menichelli e il prof. Filippo Boscia per la loro diponibilità a intervenire a questo Convegno.  Li ringrazio per la profondità e la ricchezza delle loro riflessioni per il loro valore sul piano scientifico e per aver delineato una visione della vocazione del medico in generale e, più specificamente, del medico cattolico. Nella confusione culturale del nostro tempo occorre ricostruire una visione complessiva del fine della vita perché i medici possano trovare una comprensione di senso e dare il giusto orientamento alla loro attività professionale. 

La medicina tra arte e scienza 

La relazione che mi è stata affidata contiene tre aspetti, ognuno dei quali avrebbe bisogno di una trattazione specifica: l’arte medica, le virtù teologali e il discernimento. Parto dalla questione riguardante la medicina come arte. Di solito la parola arte è legata a un’attività produttiva connessa alla sfera creativa ed emozionale che si esprime in forma estetica attraverso la musica, la pittura, la scultura, le lettere. La radice sanscrita, infatti, “ar” significa andare verso, ma anche adattare, fare, produrre. La parola greca tέχνη e quella latina “ars” mantengono il doppio significato di tecnica e di arte. L’accento è posto sulla dimensione pratica ossia sull’abilità di un’attività produttiva, capace di costruire oggetti. 

Nel giuramento di Ippocrate (460 a.C. circa – Larissa, 377 a. C.), universalmente considerato come il padre della medicina, leggiamo queste parole: «Con innocenza e purezza io custodirò la mia vita e la mia arte». Queste parole definiscono la medicina un’arte per ristabilire l’equilibrio, l’armonia, la salute. È innegabile, infatti, che gran parte della medicina nasce da un sapere empirico. I greci la chiamavano iatrikè tekne, in contrapposizione all’episteme, considerandola come una specie di attività artigianale che opera la sintesi tra scienza, tecnica, e arte.

Sempre Ippocrate diceva: «La vita è breve, l’arte è vasta, l’intuizione è fugace, l’esperienza è fallace, il giudizio è difficile. Bisogna che non solo il medico sia pronto a fare da sé le cose che debbono essere fatte, ma anche il malato, gli astanti, le cose esterne». Questa espressione mette in evidenza che, pur nella brevità della vita, l’arte si presenta in una dimensione vasta perché come il pittore deve essere sempre un artigiano capace di armonizzare i propri ingredienti (colori, impasti, combinazioni) per realizzare le proprie intenzioni, così il medico deve saper combinare diversi elementi per ristabilire la salute: i parametri fisiologici, gli aspetti psicologici, la relazione con l’ambiente e con le altre persone. Nell’arte medica, fondamentale è l’intuizionenella quale tutti questi parametri si combinano per dare un quadro preciso del paziente ed una conseguente cura, da vedersi non solo come farmacologica, ma come “cura della vita”. Ma l’intuizione è fugace. D’altra parte, sebbene l’esperienza sia fondamentale nell’attività medica abbandonarsi ad essa sarebbe fatale, priverebbe della capacità di osservare ed ascoltare, di entrare in contatto con l’unicità del paziente. L’esperienza, infatti, è fallace. Infine il giudizio, inteso come parere, opinione, prognosi, discernimento ma anche senno, prudenza, saggezza, è difficile. Occorre, infatti, che il paziente e chi gli sta intorno si sentano responsabili della cura della propria salute, senza delegare ogni cosa totalmente al medico.

L’arte, diceva Aristotele, è figlia dell’esperienza ed è il punto di incontro fra molte competenze empiriche[1]. Questa idea di arte era ancora presente Medioevo che distingueva le arti in liberali (che includevano non a caso architettura e medicina) e meccaniche[2]. Secondo questa visione, la medicina è l’arte per eccellenza. 

D’altra parte, il termine “medicina” deriva dal latino medietas, medietà, giusta misura, essere intermedio, elemento di interposizione. Il medico, quindi, deve essere in grado di interpretare e trovare la giusta misura per il malato che ha in cura, interponendosi tra l’essere malato in generale e il sentirsi malato di quella particolare persona. Secondo il detto di Ippocrate, il medico, forte delle sue conoscenze tecniche e scientifiche, deve essere in grado «di spiare e interpretare i segni del male sul corpo del paziente, ma deve anche essere in grado, con la sua arte, di spiarne i discorsi, i modi, i gesti, i pensieri, il sonno e l’insonnia».

Anche gli anglosassoni definiscono la medicina medical art. Essi utilizzano tre termini diversi per definire la malattia: disease, la malattia secondo le conoscenze mediche, cioè la concettualizzazione della malattia da parte dei medici, il modello che ha il medico della malattia; sickness, il riconoscimento sociale della malattia, cioè la rappresentazione che ha la società della malattia; illness, la malattia del malato, il sentirsi malato, che include aspetti di esperienza soggettiva dello star male. Una cosa è “essere malato”, in quanto riconoscimento della malattia da parte del medico, altra cosa è “sentirsi malato”, in quanto esperienza e vissuto personale.

Con l’avvento dell’approccio scientifico, la componente tecnologica della medicina è divenuta preponderante rispetto alla componente antropologica, sempre più trascurata. L’alleanza tra il medico e il paziente si è assottigliata ed è prevalsa una nuova visione della medicina, fatta di budget, vincoli economici, linee guida, protocolli.

In realtà, la ragione più importante per cui esiste la medicina è quella di curare le persone perché si sentono malate, e non soltanto perché sono riconosciute tali. La medicina non è una scienza come tutte le altre, in quanto include regole e leggi naturali e soggettività, dimensioni biologiche e psicologiche. Limitandosi a un approccio meramente analitico, focalizzato solamente sui dati obiettivi della malattia, sull’essere malato, e non anche sul sentirsi malato, il medico rischia di non ascoltare più il paziente e di trattarlo come una macchina guasta. Ogni malato è diverso dall’altro e differente è il modo di sentirsi ammalati.

La medicina, oggi, sta riconoscendo la necessità di un approccio integrale alla persona umana, sia del paziente come anche del medico. Il Lancet, una delle più autorevoli riviste scientifiche, a partire dal gennaio 2008, ha dato il via a una ’rubrica’ settimanale intitolata The art of medicine. Nell’editoriale di presentazione si afferma: «La maggior parte delle pagine di Lancet sono naturalmente dedicate alla ricerca scientifica e ai fondamenti tecnici che sostengono il progresso medico. Ma la medicina è influenzata da una serie di fattori che hanno poco a che fare con la scienza. Essa è un processo anche sociale e culturale, ed è condizionata da un inevitabile legame con la storia, la letteratura, l’etica, la religione e la filosofia: in breve, essa ha un’implicazione umanistica, e deve ammettere un ruolo per quelle branche che hanno più a che fare con l’analisi e l’interpretazione che non l’empirismo e l’evidenza»[3].

L’arte medica è un incontro tra due esseri umani: il medico e il malato. Dal loro incontro e dalla reciproca relazione prende senso e significato l’arte della cura. La relazione di cura si fonda su tre pilastri: le necessarie conoscenze scientifico; l’abilità tecnica cui concorrono intuito, sesto senso, senso critico, senso pratico, capacità di giudizio; l’ethos umano, cioè l’etica che permette al medico di riconoscere nel malato prima di tutto l’uomo. Il medico deve avere la capacità di instaurare un rapporto di empatia, avere cioè la capacità di sentire dentro, di comprendere i pensieri, gli stati d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona in modo immediato, talvolta senza far ricorso alla comunicazione verbale.

Di recente è nato, a Ferrara, un nuovo modo di intendere la medicina e la salute, denominato Slow Medicine, una medicina lenta, sobria, rispettosa, giusta, il cui motto è «non sempre fare di più significa necessariamente fare meglio». La medicina auspicata da Slow Medicine è una medicina a misura d’uomo, non più schiava della fretta, della tecnologia, dell’innovazione a tutti i costi. Una medicina che vuole andare verso una nuova qualità della cura, fatta di efficacia e umanità, di assistenza e di ascolto, di competenza clinica e abilità sociale, convinta che i valori e le aspettative delle persone malate sono diversi ed inviolabili. Il simbolo di questo movimento sono due chioccioline, che rappresentano il paziente e il medico, che lentamente si incontrano e comunicano tra di loro. Il riavvicinamento del medico al malato e del malato al medico serve a riallacciare l’alleanza tra uomo e uomo e non solo tra medico e paziente.

La dimensione tricotomica e personale dell’uomo

Il medico cattolico deve considerare che vi sono due piani distinti e interagenti tra di loro: il piano dell’arte medica e quello delle virtù teologali. L’arte medica si colloca sul piano antropologico, le virtù su quello teologale. Si tratta di due piani non sovrapposti o contrapposti e nemmeno separati, ma distinti e interconnessi. 

Occorre pertanto considerare la distinzione e la profonda unità – qui il riferimento è alla visione olistica di cui si è parlato in alcuni precedenti interventi – tra la dimensione antropologica e quella teologale. Ciò significa che c’è qualcosa di divino nell’uomo e che l’aspetto teologale non è al di fuori della dimensione antropologica. Chi ha formulato il titolo della mia relazione è partito da una precomprensione che considera la vita divina intimamente connessa con la vita umana. 

Per capire questo, bisogna richiamare la visione antropologica biblica. Per la Sacra Scrittura, l’uomo è immagine di Dio. Il termine “immagine”, (eikon in greco) non indica una sorta di raffigurazione esterna, ma significa che qualcosa essenziale. Quando si dice che l’uomo è creato a immagine di Dio, si intende dire che qualcosa di Dio è presente nell’uomo. L’uomo non è soltanto “carne” (in greco sarx) ma è anche anima (psiche) e spirito (penuma). Questa visione tricotomica dell’uomo non vale solo nel disegno originario di Dio, ma anche nella fattualità storica. Per questo al Sacra Scrittura afferma che l’uomo oltre che immagine e anche somiglianza di Dio. Immagine sta ad indicare la dimensione ontologica, somiglianza indica il processo da realizzare. In altri termini, l’uomo è costituito essenzialmente come immagine di Dio, e a realizzare questa immagine deve tendere in tutta la sua vita. Tutta la nostra esistenza è un cammino di somiglianza all’immagine originaria. 

Quando diciamo che il medico deve essere vicino all’uomo, dovremmo riferirci all’uomo considerato secondo questa costituzione antropologica. Nella visione cristiana, l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio, cioè come una realtà di tipo ontologico, che diventa un impegno di tipo processuale. L’uomo deve diventare quello che è: Dio per grazia! Ogni volta che il medico incontra un paziente deve vedere in lui non soltanto la sua umanità, ma anche il riflesso della divinità. Con la venuta di Cristo, questo legame tra uomo e Dio è diventato ancora più stretto, perché in Cristo l’umano e il divino sono intimamente e inseparabilmente congiunti. In lui e con lui, l’umanità entra nella comunione della Trinità. 

Quanto fin qui detto potrebbe apparire solo una dottrina teologica. In realtà, le conseguenze sono significative sul piano pratico. Oggi siamo portati a pensare l’uomo nella sua realtà individuale secondo il principio di autodeterminazione. Certo, l’uomo si fonda su se stesso e da se stesso decide il fine della sua vita. Ma il suo fondamento ultimo è Dio. L’uomo non è individuo, ma persona. Questo concetto viene elaborato nel IV secolo durante le controversie trinitarie. Per capire il mistero della Trinità, i Padri della Chiesa utilizzarono la parola greca “prosopon” che originariamente significava “maschera” e l’hanno riferita alle tre persone della Trinità per indicare che tra di loro vi sono “relazioni essenziali” che le distinguono, senza separale. 

I Padri hanno preso una parola dal linguaggio comune le ha dato il valore di “relazione”. Dio è persona in quanto è “relazione sussistente”. L’uomo è persona in quanto è strutturalmente ed essenzialmente in relazione con se stesso, con gli altri e con Dio. Il concetto di persona nato nel contesto della riflessione trinitaria è stato poi applicato anche in ambito antropologico. 

L’uomo non è “individuo”, ma “persona” cioè essere in relazione. L’altro è parte di noi. È bello pensare a quello che scrive un grande teologo. Parlando della nascita e della crescita della persona umana, egli dice che il bambino guardando il volto della madre comprende la sua identità e la sua individualità. Capisce la sua personalità non solo riflettendo su se stesso, ma guardando il volto della madre che fa da specchio e fa emergere la sua dimensione personale. 

In definitiva, chi è dunque l’uomo? È “carne” (sarx) nella sua dimensione corporea e storica. Ogni uomo ha un corpo, anzi è un corpo, e vive in un contesto storico-geografico. Il secondo elemento costitutivo dell’uomo è l’anima (psiche). Essa comprende la dimensione psicologica, affettiva, volitiva, emozionale, decisionale. Questo secondo elemento è indicato dalla Bibbia con il concetto di cuore. Il centro dell’attività umana per noi è del cervello, per la Bibbia è il cuore. Poi c’è lo spirito / Spirito (pneuma), cioè la scintilla divina che è parte integrante della persona umana. Non è senza significato che spirito si dice in tutti e tre i generi: “ruah” in ebraico è di genere femminile, “pneuma” in greco è di genere neutro; “spiritus” in latino, è di genere maschile.  

L’uomo, inteso come persona, è fatto di corpo (materialità e storicità), intimamente connesso con la dimensione della psiche e la realtà dello spirito divino. Il divino allora non è sopraggiunto all’umano, ma è intimamente parte di esso. Partendo da questo presupposto, il malato non può mai essere considerato come “materiale di scarto”, ma nella sua piena dignità. Le questioni bioetiche che riguardano l’inizio e la fine della vita (l’aborto, l’eutanasia, la maternità surrogata) nascono in una visione dove il concetto di individuo ha sostituito quello di persona. Quando invece la persona rimane il punto di riferimento il tema fondamentale diventa quello della cura.

Le virtù teologali e l’arte medica

Partendo da questa visione antropologica, le virtù teologali (dal greco θεός, «Dio» e λόγος, «parola»), devono essere considerate come doni che integrano la persona umana. Il medico dovrebbe sapere che il paziente non è solo un corpo, ma una persona dotata di un’anima e dello stesso spirito divino. 

Le virtù teologali si riferiscono direttamente a Dio e dispongono la persona umana a vivere in relazione con la santissima Trinità. Avendo come origine, causa e oggetto Dio, Uno e Trino, sono il pegno della presenza e dell’azione dello Spirito Santo, infuso nell’anima per rendere la persona capaci di agire quali figlio di Dio e meritare la vita eterna. 

Le virtù sono tre, ma unica è la virtus ossia la vita divinaCome la Trinità è costituita da tre persone in un’unica natura, così le virtù teologali sono tre in una sola realtà. Per questo san Paolo afferma che «dobbiamo essere […] rivestiti con la corazza della fede e della carità, avendo come elmo la speranza della salvezza» (1Ts 5,8). Anche Origene scrive: «Sempre coloro che credono mantengono la fede, la speranza e la carità. Credo infatti che il principio e il fondamento stesso della salvezza sia la fede, l’avanzamento e l’accrescimento dell’edificio sia la speranza, ma il compimento e culmine di tutta l’opera sia la carità. Per questo più grande di tutte vien detta la carità (cfr. Rm 4,21; 1Cor 13,13)»[4]

Per fede, crediamo in Dio e crediamo tutto ciò che egli ci ha rivelato e che la Chiesa ci propone da credere. Se non si accompagna alla speranza e all’amore, la fede non unisce pienamente il fedele a Cristo e non ne fa un membro vivo del suo corpo.  Per questo sant’Agostino scrive: «Il desiderio della visione: la fede. / Il desiderio del possesso: la speranza. / Il desiderio dell’amore: la carità. / Con l’attesa, Dio accresce il desiderio. / Con desiderio, scava le anime. / Scavandole, le rende più capaci di riceverlo»[5].

Le virtù teologali consentono l’acquisizione delle virtù morali. Queste si radicano nelle virtù teologali, le quali rendono le facoltà dell’uomo idonee alla partecipazione alla natura divina. Le virtù morali sono i frutti e i germi di atti moralmente buoni; dispongono tutte le potenzialità dell’essere umano ad entrare in comunione con l’amore divino. La vita morale dei cristiani è sorretta anche dai doni dello Spirito Santo, quali disposizioni permanenti che rendono l’uomo docile a seguire le mozioni dello Spirito Santo. In tal modo, lo Spirito Santo consente di conseguire i frutti di queste azioni virtuose. San Paolo ne enumera dodici: «Amore, gioia, pace, pazienza, longanimità, bontà, benevolenza, mitezza, fedeltà, modestia, continenza, castità» (Gal 5,22-23).

La triade delle virtù teologali reclama un’altra trilogia ‘virtuosa” fatta di érgon, “operosità”, kópon, “impegno” e hypomonè, “costanza”: «Ricordiamo – afferma l’apostolo Paolo – il vostro impegno (kópon) nella fede, la vostra operosità (érgon) nella carità e la vostra costanza (hypomonè) nella speranza» (1Ts 1, 3).  Come le piante hanno la linfa e il corpo il sangue, così l’anima è vivificata dalle virtù teologali. 

Di solito per spiegare il rapporto tra le tre virtù teologali si porta come immagine quella dell’albero: la fede indica le radici, il tronco la speranza, i frutti la carità: «Si comincia con la fede piantata nell’uomo come una radice, – afferma un monaco del VII secolo – poi la speranza si sviluppa in altezza come il tronco salendo fino alla cima e portando su con sé la fede, come per dei canali, in modo che la linfa dalla radice arriva fino alle fronde. Così, attraverso la speranza, la fede si diffonde in tutti i rami e in tutti i germogli, come in un folto albero, aspettando che dall’alto cominci a spirare su di esso il soffio della fioritura che gli faccia produrre i suoi frutti, cioè l’amore e tutto il resto»[6].

Prendendo in esame le singole virtù, possiamo dire che fede, che in greco si dice pístis, significa accoglienza della grazia dell’amore. La riflessione teologica distingue tra fides quae (“fede che” ha in sé un contenuto di verità) e fides qua (“fede con la quale si accoglie la rivelazione). La prima indica l’accoglienza della verità rivelata, la seconda indica l’atto con cui si accoglie la verità. 

Vi è poi una stretta interdipendenza tra fede e ragione, secondo il detto agostiniano “credo ut intelligam, intelligo ut credam”.  «Chiunque crede pensa e pensando crede […]. La fede, se non è pensata, è nulla»[7]. Riprendendo la definizione della Lettera gli Ebrei, Dante afferma che «fede è sustanza di cose sperate, / ed argomento de le non parventi»[8]. La fede non è altro se non una luce che illumina l’oscurità della visione circa la nostra vita e il suo fine ultimo. Essa «illumina tutta l’esistenza»[9]. Con una similitudine di carattere medico, potremmo dire che la fede è come la luce di un laser che illumina l’oscurità. Il lumen fidei è una luce che apre lo sguardo all’intelligenza del cuore.

La speranza in latino di dice “spes”, ed indica la capacità di camminare senza stancarsi, andare avanti, guardare oltre. Se la fede ha la prerogativa di illuminare, la speranza è un invito a guardare l’orizzonte e a credere sempre di più. Per la speranza noi desideriamo e aspettiamo da Dio, con ferma fiducia, la vita eterna e le grazie per meritarla. La speranza «non delude» (Rm 5,5) e ci procura la gioia anche nella prova (cfr. Rm12,12). Nel Paradiso, Dante formula in modo lapidario il cuore della speranza: «Speme, diss’io, è uno attender certo / della gloria futura»[10].

La Lettera agli Ebrei parla della speranza come “àncora gettata in cielo” (cfr. Eb 6,19-20). Di solito, si getta l’ancora nel profondo del mare per stare fermi. La Scrittura, invece, sostiene che la speranza è l’àncora per salire in cielo, una forza che ci tira su. L’arte medica, pertanto, non consiste solo nel somministrare i farmaci, ma nell’infondere anche la speranza. Ogni persona dovrebbe ripetere queste parole di santa Teresa d’Avila: «Spera, anima mia, spera. Tu non conosci il giorno né l’ora. Veglia premurosamente, tutto passa in un soffio, sebbene la tua impazienza possa rendere incerto ciò che è certo, e lungo un tempo molto breve. Pensa che quanto più lotterai, tanto più proverai l’amore che hai per il tuo Dio e tanto più un giorno godrai con il tuo Diletto, in una felicità ed in un’estasi che mai potranno aver fine»[11].

            Infine, vi è la carità. Dio è carità e quindi tutto quello che noi facciamo mossi dalla carità non si disperde, resta in eterno. Per la carità, noi amiamo Dio al di sopra di tutto e il nostro prossimo come noi stessi per amore di Dio. Tutto passa, anche la fede e la speranza, ciò che rimane è la carità. La carità, frutto dello Spirito e pienezza della Legge è «il vincolo di perfezione» (Col 3,14) e la forma di tutte le virtù. Sant’Ambrogio dichiara che «nihil caritate dulcius», «nulla è più dolce della carità»[12] e sant’Agostino scrive: «Il compimento di tutte le nostre opere è l’amore. Qui è il nostro fine; per questo noi corriamo, verso questa meta corriamo; quando saremo giunti, vi troveremo riposo»[13]. La beatitudine più intensa è quella di «coloro che si sono addormentati nell’amore!» (Sir 48, 11).

Anche scrittori laici hanno saltato l’amore. Kafka, nei suoi dialoghi con l’amico Gustav Janouch, scrive: «Amore è tutto ciò che aumenta, allarga, arricchisce la nostra vita, verso tutte le altezze e tutte le profondità. L’amore non è un problema, come non lo è un veicolo; problematici sono soltanto il conducente, i viaggiatori, la strada». Il famoso scrittore austriaco, Robert Musil, nel suo capolavoro incompiuto L’uomo senza qualità, osserva: «Vi sono innamorati che guardano nell’amore come nel sole, e divengono semplicemente ciechi; mentre ve ne sono altri che con stupore scoprono per la prima volta la vita quando l’amore la illumina». L’autentico amore non acceca, ma illumina l’esistenza. Il poeta Mario Luzi nella poesia, Nel mese di giugno, canta: «La virtù quando non giunge / fino all’amore è cosa vana»[14].

Due esempi di vita

Concludendo questa riflessione mi piace soltanto richiamare alcune frasi di san Giuseppe Moscati, quasi a dimostrazione della verità quanto sopra esposto. Visitando un malato, egli afferma: «Vi ho visitato più come amico che come medico». Mantenendo la sua professionalità, vive con il malato un rapporto di amicizia. Ed ancora: «Vi auguro che con l’aiuto di Dio, che è il primo medico, voi guarirete subito». Si guarisce non soltanto per le cure mediche. I miracoli avvengono per forza divina che agisce anche attraverso l’opera del medico. Rivolgendosi ai più giovani, egli afferma: «Ricordatevi che con la medicina vi siete assunto la responsabilità di una sublime missione. Perseverate, con Dio nel cuore, con gli insegnamenti di vostro padre e di vostra mamma sempre nella memoria, con amore e pietà per i derelitti, con fede e con entusiasmo, sordo alle lodi e alle critiche, tetragono all’invidia, disposto solo al bene».

L’arte medica non è solo una professione, ma anche una missione, per questo Moscati esorta: «Perseverate nell’amore alla verità, a Dio che è la verità medesima, a tutte le virtù e così potrete espletare il vostro esercizio professionale, come una missione». La missione arriva fino all’identificazione con il malato: «Sono pronto – egli afferma – a coricarmi nel letto stesso dell’ammalato». 

Anche nell’arte medica, il primato va dato alla carità «Non la scienza, – egli afferma – ma la carità ha trasformato il mondo, in alcuni periodi; e solo pochissimi uomini son passati alla storia per la scienza; ma tutti potranno rimanere imperituri, simbolo dell’eternità della vita, in cui la morte non è che una tappa, una metamorfosi per un più alto ascenso, se si dedicheranno al bene». Ed ancora: «La scienza ci promette il benessere e tutto al più il piacere; la religione e la fede ci danno il balsamo della consolazione e la vera felicità, che è una cosa sola con la moralità e col senso del dovere». 

Aggiungo un’ultima postilla. Mi è giunta proprio in questi giorni una relazione di don Tonino Bello dal titolo La malattia alla luce della fede. Leggo soltanto la frase finale e così chiudo anche la mia riflessione: «Al momento della sofferenza altrui occorre soprattutto saper tacere e lasciar sfogare». L’arte medica è l’arte dell’ascolto e della consolazione, della capacità di stare accanto a colui che soffre. Le virtù teologali rendono possibile questa vicinanza. Il medico cattolico non deve soltanto essere bravo professionalmente, ma deve anche essere come il buon samaritano, facendosi vicino a chi è nel dolore e nella sofferenza. 


[1] «L’esperienza è per gli uomini solo il punto di partenza da cui derivano scienza ed arte. L’arte nasce quando da una molteplicità di nozioni empiriche venga prodotto un unico giudizio universale che abbracci tutte le cose simili tra loro. Infatti l’esperienza si limita a ritenere che una certa medicina sia adatta a Callia colpito da una certa malattia, o anche a Socrate o a molti altri presi individualmente; ma a giudicare, invece, che una determinata medicina è adatta a tutti costoro considerati come un’unica specie (ossia affetti, ad esempio, da catarro o da bile o da febbre), è compito riservato all’arte» (Aristotele, Metafisica, Libro A, 981a). 

[2] La distinzione in arti liberali e arti meccaniche fu effettuata per la prima volta da Marco Terenzio Varrone (116-27 a.C.), storico, erudito e studioso della letteratura, che ordinò il sistema delle scienze in una delle sue ultime opere, le Disciplinae, composte di nove libri. Le arti liberali includevano la grammatica, la retorica, la dialettica (riunite nel cosiddetto trivium), l’aritmetica, la geometria, l’astronomia e la musica (quadrivium). Per il loro carattere teoretico e argomentativo, le arti del trivium erano dette sermocinales; mentre quelle del quadrivium, in quanto riferite allo studio della natura, erano dette reales. Marziano Capella ridusse a sette le nove arti liberali. La medicina e l’architettura, che originariamente facevano parte delle arti liberali, vennero incluse nel secondo gruppo da Marziano Capella nella sua monumentale opera in nove volumi intitolata De nuptiis Philologiae et Mercurii (Le nozze di Filologia e Mercurio, ca. 430 d.C.). Le arti meccaniche comprendevano armatura, medicina, venatio (arte della caccia), lanificium (della lana), navigatio, theatrica, architettura e pittura.

[3] Faith McLellan, Lancet, 2008/1.

[4] Origene, Commento alla Lettera ai Romani, 4, 6.

[5] Agostino, Commento alla Prima Lettera di Giovanni, 4, 6. 

[6] Il testo è ripreso da G. Visonà (a cura di), La speranza nei Padri, Edizioni Paoline, Milano 1993, p. 201.

[7] Agostino, De praedestinatione sanctorum, 2, 5.

[8] Dante Alighieri, Paradiso, XXIV, 64-65.

[9] Francesco, Lumen fidei

[10] Dante Alighieri, Paradiso, XXV, 67-68.

[11] Teresa di Gesù, Exclamaciones del alma a Dios, 15, 3: Biblioteca Mística Carmelitana, v. 4 (Burgos 1917) p. 290.

[12] Ambrogio, De officiis, II, 30, 155.

[13] Agostino, In epistulam Ioannis ad Parthos tractatus, 10, 4.

[14] M. Luzi, ll giusto della vita, Garzanti, Milano 1960.

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