I Santi Medici, «illustri atleti di Cristo e generosissimi martiri». – Diocesi Ugento Santa Maria di Leuca

 
 

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Omelia nella Messa della solennità dei Santi Medici
Piazza san Vincenzo, Ugento, 26 settembre 2023. 

Cari fratelli e sorelle,

celebriamo, con la dovuta solennità e con convinta devozione, la festa dei Santi Medici. Secondo la tradizione non erano due, ma cinque: oltre ai santi Cosma e Damiano, si ricordano sant’Antimo, san Leonzio e sant’Euprepio. A Ugento la devozione è fortemente radicata nel popolo di Dio. In realtà, anche in molti paesi della Puglia il culto conosce una diffusione e intensità senza pari: da Bitonto a Oria, da Alberobello a Poggiardo da Ruvo di Puglia a Maglie e a Muro Leccese, e in tanti altri paesi che sarebbe lungo enumerare. 

Molto significativo è il fatto che, in questo clima di gioia, festeggiamo la ricorrenza di due date: i dieci anni del gemellaggio tra la FIDAS di Ugento e quella di Arcugnano (Vicenza) e i cinque anni del gemellaggio tra le due amministrazioni comunali. Sono lieto di porgere il mio saluto a tutte le Autorità civili e militari qui presenti e, in particolar modo, alle Amministrazioni comunali e ai rispettivi Sindaci e alle due Associazioni FIDAS. Il mio non è solo un gesto di cortesia, ma il riconoscimento di un legame sociale e civile che esalta valori positivi, condivisi e perseguiti con un comune impegno.  

Atleti e martiri

Festeggiare i Santi Medici significa ricordare a tutti che non sono eroi, personaggi strani, ma modelli di vita cristiana e testimoni autentici della sequela Christi.  Sono volti concreti nei quali brilla l’ardore della fede, la fermezza della perseveranza e la vittoria nel combattimento. Con la loro testimonianza ci ricordano che la santità non è un lusso per pochi, ma una vocazione di tutti. Siamo tutti chiamati alla santità cioè alla pienezza della vita cristiana. Non si tratta di compiere imprese straordinarie, ma di unirsi a Cristo, vivere i suoi misteri, fare nostri i suoi sentimenti, i suoi pensieri, i suoi comportamenti. La misura della santità è data dalla statura che Gesù Cristo raggiunge in noi, sorretti dalla forza dello Spirito Santo.

Come è noto, il primo biografo dei Santi Medici fu il dotto vescovo Teodoreto, che resse la diocesi di Ciro in Siria dall’anno 440 al 458. Nei suoi scritti li definì «illustri atleti di Cristo e generosissimi martiri». Tutti i cristiani, in forza dei sacramenti dell’iniziazione cristiana, diventano “atleti di Cristo”. San Paolo paragona la vita all’attività sportiva e alla lotta. Ed anche il libro di Giobbe sottolinea che «militia est vita hominis super terram» (Gb 7,1). Non si può ridurre tutto a gioco e a spettacolo. In proposito sant’Ambrogio scrive: «Siamo atleti, che gareggiano in uno stadio spirituale e dobbiamo lottare secondo le regole. Vi sono molti incontri di lotta e chi oggi è vinto, domani si riscatta. Prima si lotta per il premio, poi per la corona. Forse che l’atleta, una volta che si è iscritto alla lotta, si dà all’ozio? Si esercita ogni giorno, ogni giorno si unge. Egli riceve anche un cibo appropriato all’attività agonistica; si richiede una severa condotta di vita, bisogna conservare la castità. Anche tu ti sei iscritto all’agone di Cristo, ti sei iscritto alla gara per la corona»[1].

È importante e urgente riscoprire questa dimensione “agonistica” della vita cristiana. Viviamo dentro una “modernità liquida”[2] che ha reso molto labile la nostra capacità di resistere e di lottare e funziona come un farmaco che assopisce le passioni e le rende tristi[3]. La società dei consumi riesce a rendere permanente la non-soddisfazione. Le necessità, i desideri ed i bisogni vengono continuamente soddisfatti. proprio per dar vita ad altre necessità, desideri e bisogni. In questa prospettiva, gli esseri umani non sono degli atleti, ma dei consumatori. Si tratta, invece, di avere la capacità di ricominciare dopo le delusioni, gli affanni, le sconfitte.

Oltre che atleti, i Santi Medici sono anche martiri. Hanno vissuto una fede vera e concreta, hanno perdonato i loro persecutori e, nello stesso tempo, hanno continuato la loro missione affrontando anche la persecuzione. In esecuzione dell’editto di Diocleziano del 23 febbraio 303, i due furono arrestati con l’accusa di perturbare l’ordine pubblico e di professare una fede religiosa vietata. Il libro del “Martirologio”, che si ispira al citato Teodoreto, ci informa che «i santi Cosma e Damiano furono martiri cinque volte». Passarono infatti per le prove dell’annegamento, della fornace ardente, della lapidazione, della flagellazione, per finire i loro giorni terreni col martirio della decapitazione nell’anno 303.

I martiri «sono ammonitori scomodi», manifestano tratti di una durezza sconcertante, che nella società attuale provoca in molti uno strano malessere[4]. Per Clemente di Alessandria il tratto distintivo del martire cristiano, che gli conferisce autenticità, è «la testimonianza dell’amore che si dimostra nella libera accettazione della morte»[5]. San Tommaso, nel suo commento alla Lettera ai Romani, riconosce a chiare lettere che «per Cristo non soffre solo chi soffre per la fede in Cristo, ma anche colui che per amore di Cristo soffre per qualsiasi opera della giustizia»[6]. Il Concilio Vaticano II parla di martirio, accettato liberamente, come «suprema probatio caritatis» (suprema prova di carità)[7]. Bisogna riscoprire questa dimensione “testimoniale” della vita cristiana. In un mondo pluralista, il cristiano è chiamato a rendere ragione della propria speranza da esprimere con dolcezza e rispetto (cf. 1 Pt 3,15).

Curare le fragilità e le infermità

Un libro liturgico orientale chiamato Anthologhion contiene due invocazioni ai Santi Medici. La prima contiene questa supplica: «Voi che avete ricevuto la grazia delle guarigioni, effondete vigore su quelli che sono nella sofferenza, o gloriosi medici taumaturghi» (Kondakion del 1° luglio). L’altra invocazione afferma: «Santi anárgiri e taumaturghi, visitateci nelle nostre infermità: gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date a noi» (Apolytíkion del 1° luglio). 

Le due invocazioni sottolineano due aspetti della nostra vita: la fragilità e l’infermità. La prima parola fragilità può assumere due significati: negativo e positivo. Nel primo senso, richiama la situazione del nostro tempo[8]. Siamo disancorati, viviamo la vita giorno per giorno, inseguendo una serie sempre nuova di bisogni improvvisi, senza assicurare mai impegni definitivi. Siamo come una nave che naviga in mare aperto senza una meta, un preciso itinerario da seguire, un porto da raggiungere. Più che pellegrini con un preciso punto di partenza e di arrivo, sembriamo turisti che non hanno una fissa dimora e passano da un albergo all’altro alla ricerca di novità che possano soddisfare la loro curiosità. Viaggiamo per viaggiare e ci fermiamo dove capita. Soprattutto non vogliamo assumere responsabilità stabili e definitive, ma desideriamo vivere di esperienze, incontri fugaci, episodi occasionali, senza costruire nessuna storia.

In questo senso, la parola fragilità acquista un significato negativo[9] perché spesso assume il volto dell’aggressività nelle relazioni interpersonali, richiama i casi di bullismo e di cyberbullismo tra pari o verso le/gli insegnanti. Ricorda l’espandersi del bisogno di droghe, alcol e farmaci per sopperire alla tristezza di vivere. Evidenzia la labilità dei legami e delle relazioni interpersonali. Soprattutto manifesta in modo drammatico l’evolversi di alcuni fenomeni, come il tragico aumento dei suicidi giovanili. Le indagini statistiche sulla condizione giovanile ci avvertono che dopo gli incidenti stradali la seconda causa di morte tra i giovani è il suicidio, con tre ragazzi al giorno che si tolgono la vita. Abbiamo bisogno di sostenere questa estrema ed endemica fragilità. La cura in questo caso comporta la sapienza del vivere che matura attraverso progetti educativi e con la presenza di figure che siano capaci di accompagnare il cammino di crescita.  «La fragilità è un altro dei nomi del divenire stesso dell’esistenza […]. Cercare di diminuire e di combattere il disagio giovanile implica quindi lo sforzo di abitare una temporalità complessa che sia sotto la condizione di una spazialità che si oppone all’astrazione deterritorializzante del mondo neoliberale e a un presente in perenne mancanza»[10] a favore dell’ora attuale senza cedere alla fretta e alla schiavitù del domani.

La parola fragilità può anche assumere un significato positivo e tramutarsi in una straordinaria opportunità per ricomprendere l’umanità che ci accomuna[11]. Riconoscersi fragili è la grande lezione da apprendere per imparare la dignità della vita vulnerabile, aprire il varco per ricostruire legami sociali autentici, condividere con amore la medesima condizione e superare insieme tutte le possibili solitudini. Nell’alleanza tra i fragili si apre la via per un umanesimo integrale.

La seconda parola è infermità. I santi che oggi festeggiamo hanno vissuto la loro fede curando il corpo degli ammalati che chiedevano il loro aiuto e incoraggiando tutti coloro che erano in un deficit di speranza. Nel volto del povero e dell’infermo, essi hanno riconosciuto il volto di Cristo. Per questo la Chiesa li ha designati patroni dei medici, dei chirurghi, dei farmacisti, degli ospedali. Nella celebrazione eucaristica di ieri sera ci siamo soffermati a riflettere su questo. 

Lo stile della gratuità

I Santi medici hanno vissuto la loro missione con gratuità, in sintonia con l’esortazione di Gesù ai suoi discepoli: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8). La gratuità non ha soltanto un risvolto economico, ma indica la disponibilità a venire incontro ai bisogni dei più deboli. Tutti possono dare qualcosa. Non importa la quantità, ma la sensibilità del cuore. Emblematico è l’episodio evangelico della vedova che mette nel tesoro del tempio solo pochi spiccioli, rispetto alle grosse somme di altre e persone facoltose. Gesù, però, addita questa donna come esempio da imitare (cf.  Mc 12,38-44).

Sant’Agostino, in un suo discorso dice che «perfino i poveri hanno la possibilità di dar qualcosa l’uno all’altro; uno presti i propri piedi allo zoppo, un altro offra al cieco i propri occhi per guidarlo; un altro visiti chi è infermo, un altro dia sepoltura a chi è morto. Tutti possono rendere tali servizi, sicché è del tutto difficile trovare uno che non abbia qualcosa da dare a un altro. C’è infine da osservare il grande precetto insegnato dall’Apostolo: Aiutatevi a portare i pesi gli uni degli altri e così adempirete la legge di Cristo»[12].

Questa espressione dell’apostolo Paolo (cf. Gal 6,2) è il luminoso messaggio che ci consegnano i Santi Medici. Portare i pesi gli uni degli altri significa sostenere gli altri a portare qualcosa che grava sul loro corpo e sulla loro anima. La Chiesa è una famiglia, una casa, un corpo. C’è una stretta interdipendenza. Se una parte del corpo soffre, tutto il corpo soffre. Se una parte del corpo gioisce, tutto il corpo festeggia.Condividere insieme gioie e speranze, difficoltà e desideri è una potente forza di elevazione personale e sociale. Non solo sconfigge l’individualismo, ma rende la vita più leggera, nonostante i disagi e i problemi che essa comporta. 

Soprattutto ci invita a guardare con fiducia e speranza anche di fronte alle oscurità del nostro tempo. «I più grandi profeti e i santi – attesta Edith Stein, santa Teresa Benedetta della Croce – sorgono proprio nella notte più oscura. La corrente vivificante della vita mistica rimane certo invisibile, ma è certo che gli avvenimenti decisivi della storia del mondo sono stati essenzialmente influenzati da anime sulle quali nulla viene detto nei libri di storia. E quali siano le anime che dobbiamo ringraziare per gli avvenimenti decisivi della nostra vita personale, è qualcosa che sapremo soltanto nel giorno in cui tutto ciò che è nascosto sarà svelato»[13].

A questa categoria di persone appartengono i Santi Medici. La loro intercessione sostenga il nostro impegno personale e comunitario, ecclesiale e civile. Buona festa a tutti.


[1] Ambrogio, De Elia et ieiunio XXI, 79.

[2] Cf. Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari-Roma 2011. 

[3] Cf. M. Benasayag – G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli 2013.

[4] E. Schockenhoff, Fermezza e resistenza. La testimonianza di vita dei martiri, Queriniana, Brescia, 2017, p. 26.

[5] Ivi, p. 126.

[6] Ivi, p. 228.

[7] Lumen gentium, 42,3.

[8] Cf. Z. Bauman, Il disagio della postmodernità, Laterza, Bari-Roma 2018.

[9] Cf. A. De Vita (a cura di), Fragilità contemporanee, Fenomenologie della violenza e della vulnerabilità, Mimesis, 2021.

[10] M. Benasayag, Il disagio giovanile e la fine di un mondo, in “Vita e Pensiero”, 106, 2023, n. 2, p. 16.

[11] Cf. V. Paglia, La forza della fragilità, Laterza, Bari- Roma 2023.

[12] Agostino, Discorso, 91, 7, 9.

[13] E. Stein, «Verborgenes Leben und Epiphanie», in Gesammelte Werke XI, 145 [242-243], parzialmente citato in Francesco, Gaudete et exsultate, 8.

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