Portare la croce di Cristo, nostra gloria e nostro vanto – Diocesi Ugento Santa Maria di Leuca

 
 

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Omelia nella Messa per l’immissione canonica di don Gionatan De Marco
nella parrocchia Trasfigurazione di Nostro Signore Gesù Cristo
Chiesa matrice, Taurisano, 14 settembre 2023.

Caro don Gionatan,
cari fratelli e sorelle,
celebriamo il rito dell’immissione canonica nel contesto liturgico della festa dell’esaltazione della Croce. L’apostolo Paolo ci consegna tre chiavi interpretative: la croce è scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani, potenza e sapienza di Dio per i credenti (cf. 1Cor 1,22-24). Il vangelo di Giovanni, da parte sua, spiega che la croce è potenza e sapienza di Dio nel senso che è rivelazione della sua gloria, manifestazione dell’amore incondizionato di Dio per l’umanità (cf. Gv 12, 28; 13, 31-32). Da qui l’invito paolino a gloriarsi di null’altro se non della croce di Cristo (Gal 6, 14).

Per il cristiano, dunque la croce è gloria e vanto. “Gloria” (kabod) è un termine che già nell’Antico Testamento indica il “peso” della presenza divina nel mondo. Dunque la gloria di Dio è il peso della bellezza del suo amore che si riflette e si manifesta nella storia; la traccia della sua azione misericordiosa che salva ogni fragilità umana; l’avvento del suo Regno che rinnova il creato e lo restituisce all’antico splendore, anzi ne accresce ancora di più il suo fulgore perché lo riempie di Cristo, bellezza eterna del Padre. Da segno di sofferenza, la croce diventa manifestazione gloriosa e vittoriosa dell’amore. Per questo l’apostolo Paolo esorta: «Il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3, 17-19).

Da qui l’invito evangelico a prendere la propria croce e a seguire il Signore (Mt 16, 24; Mc 8, 34; 10, 21; Lc 9, 23;). In realtà, le molte croci non sono altro se non una partecipazione all’unica croce di Cristo. Come il Cireneo, ognuno porta una piccola parte della grande croce di Gesù. La sua croce contiene la sapienza divina che sorpassa ogni conoscenza e diventa nostra unica compagna e maestra di vita. Dallo spazio che daremo alla meditazione e alla contemplazione di questa sapienza crocifissa e risorta dipenderanno la nostra fede, la nostra carità, la nostra capacità di amare, la nostra santità, la nostra perfezione, la nostra conoscenza del mistero dell’amore divino, la profondità della nostra comunione con Dio.

La croce mette in luce tre aspetti: è mistero di unità, di comunione e di riconciliazione; manifestazione pubblica dell’amore ineffabile di Dio; segno della differenza rispetto alla mentalità del mondo.

La croce del presbitero

La virtus della croce di Cristo, comunicata attraverso la parola e i sacramenti, stabilisce una nuova relazione tra l’uomo e Dio e rinnova i rapporti tra gli uomini. Il punto di congiunzione tra Dio e il mondo è la croce. Essa solleva la terra, abbassa il cielo, raccoglie i quattro orizzonti, e diventa crocevia dei cuori dispersi. Si manifesta così la natura comunionale e sacramentale della Chiesa[1] e si esprime la peculiare unità dei fedeli come membra del Corpo mistico di Cristo. In quanto dono di Dio e frutto del mistero pasquale di Cristo, la comunione ecclesiale, invisibile e allo stesso tempo visibile, fonda una comunità organicamente strutturata, «un popolo adunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo»[2]

Nella comune partecipazione visibile ai beni della salvezza (le cose sante), specialmente all’Eucaristia, tutti i membri della Chiesa trovano la radice della loro comunione invisibile (comunione dei santi). In analogia alla circolazione del sangue in un uomo vivente, si rinsalda l’unità spirituale e sociale come linfa vitale che circola nel corpo di Cristo e si rende saldo l’edifico spirituale fondato sulla pietra angolare che è Cristo e sull’unità di tutti i membri della Chiesa. I credenti sono “pietre vive” dell’unica costruzione, legate dalla comune partecipazione alla medesima fede, speranza, carità. San Paolo sigilla il concetto ed il precetto della comunione cristiana nella magnifica raccomandazione: «Cercate di conservare l’unità dello Spirito nel vincolo della pace» (Ef 4, 3).

In questa prospettiva, la croce del parroco, intesa e vissuta come vanto e gloria, consiste nell’essere guida e animatore della comunione ecclesiale in senso diacronico e sincronico e nella duplice dimensioneverticale (comunione con Dio) e orizzontale (comunione tra gli uomini). Questo, caro don Gionatan è il tuo compito. Inviato da Cristo e dalla Chiesa, sei chiamato a coltivare e animare la comunione ecclesiale. Si tratta di un compito esaltante. Nell’esercizio del ministero dovrai mantenere il legame oggettivo con Cristo e partecipare alla sua missione di radunare in unità il suo popolo. In modo particolare, curerai il legame personale con il Vescovo, promuoverai la fraternità sacerdotale e ti metterai a servizio del popolo di Dio. Vivrai il tuo ministero presiedendo la liturgia e valorizzando le vocazioni e i doni di tutti per l’edificazione della comunione ecclesiale. 

Vivere questo ministero di comunione in modo diacronico e sincronico significa che terrai presente la storia di questa comunità e le sue attuali esigenze pastorali. Consapevole del luminoso cammino compiuto prima sotto la paterna guida di don Renato, successivamente con la giovanile esuberanza di don Ippazio e ultimamente con l’unità di intenti di don Paolo e don Andrea, orienterai la tua azione pastorale in continuità con il passato e nella novità richiesta dai cambiamenti culturali e sociali. In tal modo, la comunità troverà in te un sicuro punto di riferimento e potrà contare sulla tua dedizione, la tua disponibilità, la tua riconosciuta creatività, la tua infaticabile opera di annuncio e di evangelizzazione.

La croce del cristiano

Per il cristiano, considerare la croce come vanto e gloria significa intendere la sua vocazione e la sua missione come responsabilità davanti al mondo. Se il compito specifico del presbitero è soprattutto adoperarsi per la comunione e l’unità della Chiesa, quello dei laici si contraddistingue nell’essere testimoni Cristo risorto nella vita familiare, professionale, sociale e politica. Il Concilio Vaticano II, infatti, esorta i cristiani a sentirsi contemporaneamente appartenenti alla città terrena e alla città celeste, senza privilegiare l’una rispetto all’altra. Bisogna evitare i due estremi della trascendenza e dell’immanenza, del secolarismo e dell’angelismo. Per questo non bisogna trascurare i propri doveri terreni per un’errata valutazione della dimensione escatologica della vita cristiana, né ci si deve immergere totalmente nelle cose di questo mondo dimenticando il fine ultimo di ogni attività umana. 

A tal proposito vale la pena riportare un passo della Gaudium et spes: «La dissociazione, che si constata in molti, tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverata tra i più gravi errori del nostro tempo […]. Non si crei perciò un’opposizione artificiale tra le attività professionali e sociali da una parte, e la vita religiosa dall’altra. Il cristiano che trascura i suoi impegni temporali, trascura i suoi doveri verso il prossimo, anzi verso Dio stesso, e mette in pericolo la propria salvezza eterna […]. Ai laici spettano propriamente, anche se non esclusivamente, gli impegni e le attività temporali. Quando essi, dunque, agiscono quali cittadini del mondo, sia individualmente sia associati, non solo rispetteranno le leggi proprie di ciascuna disciplina, ma si sforzeranno di acquistare una vera perizia in quei campi. Daranno volentieri la loro cooperazione a quanti mirano a identiche finalità. Nel rispetto delle esigenze della fede e ripieni della sua forza, escogitino senza tregua nuove iniziative, ove occorra, e ne assicurino la realizzazione. Spetta alla loro coscienza, già convenientemente formata, di inscrivere la legge divina nella vita della città terrena. Dai sacerdoti i laici si aspettino luce e forza spirituale. Non pensino però che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che, ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta, o che proprio a questo li chiami la loro missione; assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del Magistero»[3].

La croce della comunità cristiana

Non solo il presbitero e i laici, nella loro singolarità, devono portare la croce di Cristo, ma anche la comunità cristiana, nel suo insieme, è chiamata a esprime il suo vanto e ad esaltare la gloria della croce di Cristo. A tale scopo, essa deve valorizzare la dimensione escatologica del messaggio evangelico, divenendo nel territorio in cui è situata segno di contraddizione e comunità alternativa.

Cristo, infatti, è insieme «compimento (telos) della storia» e «fine (peras) del tempo». In lui l’escatologico si definisce da un lato come «compimento del tempo storico», in quanto in lui si realizzano i disegni trascendenti di Dio che superano il decorso temporale e cronologico del mondo e della storia umana e dall’altro come meta finale, punto omega dei destini del tempo, dell’umanità e della creazione.

Unita a Cristo risorto e unta dal soffio del suo Spirito (Gv 19, 30; 20, 22), la Chiesa è in continua tensione verso la sua perfezione escatologica, nel compimento della sanctorum communio nella quale, ogni membro beneficerà della crescita collettiva di tutto il corpo ecclesiale, partecipando tutti della grazia di essere “figli nel Figlio”. La Parusia del Cristo sarà, perciò, anche la Parusia della Chiesa. Ora, il processo della crescita e del compimento del Christus totus è opera dello Spirito Santo: per lui, infatti, che «abita in noi» (Rm8, 9) ognuno appartiene a Cristo e tende, nel gemito, alla piena adozione filiale (Rm 8,23) per la quale il Figlio, diviene il Primogenito tra molti fratelli. Alle fine del tempo, la Chiesa che, già oggi, mostra nelle sue stesse rughe la luce di Cristo risorto, raggiungerà la sua dimensione di Sposa senza macchia e senza ruga.

Si comprende allora che la comunità cristiana è chiamata a manifestare, già nel tempo, la sua differenza rispetto alla mentalità del mondo[4]. Le beatitudini, proclamate solennemente da Cristo, sono la sua Magna Charta, il suo insegnamento fondamentale e il programma di vita che egli addita alla sua Chiesa. Mentre proclama questo codice di santità, egli mostra se stesso come modello di vita. È lui, infatti, il beato, il povero, l’afflitto, il giusto, il pacifico. Pertanto è lui il vero codice di sanità del battezzato. Tutto sta nel testimoniare l’amore di Gesù, con il suo stesso stile e la sua medesima intensità. Per diventare beati non bisogna essere eroi ogni tanto, ma testimoni ogni giorno. La testimonianza è la via per incarnare la sapienza di Gesù. 

Certo, nel Discorso della montagna, Gesù proclama una felicità paradossale che non si identifica con la realizzazione di sé, con il soddisfacimento dei propri desideri, ma con la possibilità, offerta gratuitamente, di poter confidare in lui che, come il buon samaritano, si china sulle ferite, ne ha cura, asciuga le lacrime, sazia la tua fame, difende il diritto quando è oppresso, si pone dalla parte di chi è deriso o perseguitato. 

Egli propone una vita beata che non matura in una dimensione solitaria, velleitaria e autosufficiente, ma in una relazione di abbandono e di affidamento a Dio Padre. Si tratta di una proposta che non privilegia l’eroismo personale, ma la qualità di una relazione perché si fonda su un amore che ci precede e plasma la nostra persona. Non bisogna pertanto accontentarsi di una esistenza mediocre, annacquata, inconsistente, ma desiderare di testimoniare la dimensione alta della vita quotidiana. La prima dote della comunità cristiana deve essere la trasparenza nelle relazioni, la schiettezza reciproca: in una parola, la parresia, ossia la correzione fraterna, l’ammissione delle proprie responsabilità, il riconoscimento dei propri limiti. Beato è chi vive con mitezza, pratica la misericordia lì dove si trova, mantiene il cuore puro. Vivere le beatitudini non vuol dire fare cose straordinarie, compiere imprese che vanno oltre le nostre capacità, ma rendere eterno quello che passa, portare il cielo in terra.

La croce non è solo un mistero e un comandamento è anche una via da percorrere[5], un cammino personale e comunitaria sulle orme lasciate da Cristo; un percorso spirituale, tracciato dallo Spirito Santo, fuoco divino che ardeva nel petto di Cristo (cf. Lc 12, 49-50) che lo sospinse verso il Calvario. Anche voi siete chiamati a compiere quotidianamente questo esercizio nel quale confluiscono varie dimensioni della spiritualità cristiana: la concezione della vita come cammino o pellegrinaggio; come passaggio, attraverso il mistero della Croce, dall’esilio terreno alla patria celeste; il desiderio di conformarsi profondamente alla passione di Cristo; le esigenze della sequela Christi, per cui il discepolo deve camminare dietro il Maestro, portando quotidianamente la propria croce (cf. Lc 9, 23). Auguro a tutti un buon cammino spirituale e pastorale. Ripercorrete insieme la via crucis che sfocia nella via lucis


[1] Cf. Lumen gentium, 4, 8, 13-15, 18, 21, 24-25; Dei Verbum, 10; Gaudium et spes, 32; Unitatis redintegratio, 2-4, 14-15, 17-19, 22.

[2] Cipriano, De Oratione Dominica, 23.

[3] Gaudum et spes, 43.

[4] Cf. E. Bianchi, La differenza cristiana, Einaudi Editore, Torino, 2006.

[5] Cf. D. Mencarelli, La croce è una via, Edizioni La Meridiana, Molfetta 2013; Id., La croce e la via, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2021.

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