Il giardino dell’amore – Diocesi Ugento Santa Maria di Leuca

 
 

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Omelia nella Messa per il matrimonio di Viola De Vecchi e Maxime de Schaetzen
Chiesa di san Vitale Martire, Marittima, 3 giugno 2023

Cara Viola e caro Maxime,

a cosa possiamo paragonare il vostro matrimonio? L’immagine biblica più significativa è quella del giardino. È l’ambiente più consono per lo scambio d’amore tra l’uomo e la donna. Prendendo a prestito le parole degli innamorati del Cantico dei Cantici, oggi, con la celebrazione del vostro matrimonio, vi scambiate il reciproco invito a recarvi nel giardino. Cara Viola, al tuo grido appassionato di sposa innamorata: «Venga l’amato mio nel suo giardino», risponde prontamente e con gioia il tuo sposo, Maxime: «Sono venuto nel mio giardino, sorella mia, mia sposa» (Ct 4,16–5,1).

La metafora del giardino nella Bibbia

La metafora del giardino percorre tutto il racconto biblico. Sono quattro i giardini più significativi. Possiamo pensare anche a quattro angoli di un unico giardino. La narrazione biblica inizia con il giardino dell’Eden (cf. Gen 2,8) e termina con l’evocazione della città-giardino, la Gerusalemme celeste (cf. Ap 22,2). Al centro del racconto, sono riportati il giardino degli innamorati (cf. Ct 4,16–5,1) e il giardino dell’incontro, del riconoscimento e della gioia pasquale (cf. Gv 20, 1)[1].

In questi quattro giardini sono collocate quattro coppie di sposi[2] quasi a formare un duplice dittico: la coppia dell’origine, Adamo ed Eva nel giardino dell’Eden (cf. Gen 2–3), si ripresenta nella figura dello sposo e della sposa escatologici, cioè di Cristo e della Chiesa, nel paradiso alla fine del tempo (cf. Ap 22,17); le voci incrociate dell’amato e dell’amata nel Cantico dei Cantici (cf. Ct 1,15-16), come in una sovrapposizione e in una dissolvenza, si ripresentano sulle labbra di Cristo e della Maddalena (cf. Gv 20, 15-17) nel Vangelo di Giovanni. 

Il giardino dell’Eden: l’amore come delizia o la delizia dell’amore

La coppia di sposi, dunque, appare fin dall’inizio nel giardino delle delizie, piantato da Dio e affidato alla cura dell’uomo (cf. Gen 2,8). In questo microcosmo, irrigato da quattro corsi d’acqua, dove abbondano le specie vegetali, (cf. Gen 2,9), l’uomo e la donna si scoprono l’un per l’altro, colmi dei doni originari. Tutto è armonia e godimento. La vita scorre in piena concordia e l’amore è scambiato con vicendevole trasporto. Nulla può turbare il reciproco volersi bene. Anche la nudità non è un motivo di turbamento o, peggio ancora, di tormento e di peccato. È l’amore innocente, totalmente libero da ogni forma di negatività. Questo amore vive solo d’amore e non è intaccato da sentimenti ed emozioni che possono travolgere il dono reciproco. Tutto si esprime con semplicità e naturalezza, in piena sintonia con l’archetipo originario, sgorgato dalla fonte divina. È grazia allo stato puro, amore calmo e sereno, senza nessuna tempesta. È soffio di vento leggero che risveglia la capacità di meravigliarsi e di abbandonarsi a speranze sovrumane. È sogno perfetto diventato realtà. Suono e melodia di voci sussurrate dolcemente, in un silenzio carico di parole non dette perché basta solo un incrocio di sguardi.

Quando, però, si abbandona la via del comandamento e si insegue rovinosamente il proprio capriccio, anche quest’amore sublime può essere intaccato. Così il progetto condiviso si spezza e si infrange l’incantesimo che teneva i due cuori uniti all’unisono. Si perde la dolcezza dell’unità. Ed anche la gioia, fresca e innocente, lascia il posto all’amarezza e al rimpianto. Si passa dalla carezza e dall’abbraccio alla vicendevole accusa. Si nota solo ciò che manca nell’altro, e si dimenticano le qualità che avevano fatto vibrare l’animo, fin nelle fibre più profonde, di una letizia incomparabile. Così il giardino delle delizie si tramuta nel giardino della discordia.      

Il giardino del Cantico dei cantici: l’amore come estasi e tormento

Viene allora in soccorso l’amore del secondo giardino, quello del Cantico dei Cantici. Una certezza lo attraversa: qualunque sia l’esilio dell’amore che si consuma nel primo giardino, sarà sempre possibile incontrare un altro giardino che sia, ancora e sempre, il luogo del vero amore sponsale. L’infelice colpa delle origini diventa quasi una “felix culpa”, trova cioè un nuovo inizio e una nuova fedeltà. L’amore riappare e ricomincia l’incanto. Nel giardino degli sposi, perennemente innamorati, l’amore ritorna, con il suo fascino accattivante. Ora il dialogo d’amore, che intercorre tra di loro, è un susseguirsi di immagini poetiche, cariche d’affetto e di meraviglia, prese in prestito dal mondo vegetale. La sposa canta: «Come un melo tra gli alberi del bosco, / così l’amato mio tra i giovani. / Alla sua ombra desiderata mi siedo, / è dolce il suo frutto al mio palato» (Ct 2,3). Due versetti dopo, l’amata implorerà: «Rinfrancatemi con mele» (2,5). E, più avanti, l’amato sussurrerà all’amata: «La tua statura è slanciata come una palma / e i tuoi seni sembrano grappoli. / Ho detto: “Salirò sulla palma, / coglierò i grappoli di datteri”» (Ct 7,8-9).

Ora la metafora del giardino si sviluppa fino alla trasformazione della giovane donna nello stesso giardino. Ciò indurrà lo sposo a comportarsi a suo riguardo come ci si regola nei confronti di un giardino dai frutti lussureggianti. In piena estasi d’amore, egli esclamerà: «Giardino chiuso tu sei, / sorella mia, mia sposa» (4,12). E la sposa, intonando il controcanto, bisbiglierà all’orecchio dell’amato: «Io sono una fontana che irrora i giardini […]. Venga l’amato mio nel suo giardino / e ne mangi i frutti squisiti» (4,15-16). Ancor più estasiato, lo sposo risponderà: «Sono venuto nel mio giardino, sorella mia, mia sposa» (5,1). Con gioia, infine, la sposa suggellerà il dialogo d’amore: «L’amato mio è sceso nel suo giardino / fra le aiuole di balsamo» (6,2).

L’amore intonato scambievolmente nel Cantico dei Cantici è, al tempo stesso, una rivelazione e un compito, una mappa da seguire e una stanza in cui entrare. Il giardino, insomma, è un recinto, un hortus conclusus che custodisce l’intimità, ma è anche un luogo aperto, «una stanza senza soffitto», spalancato al cielo, agli elementi atmosferici, alle correnti d’acqua e ai venti (del settentrione, del meridione) che lo attraversano. Questi elementi provengono da altrove e infondono un respiro profondo, consentendo alle acque correnti o scroscianti di inebriare gli animi dei due innamorati: «Io sono una fontana che irrora i giardini, – canta la sposa- / pozzo d’acque vive / che sgorgano dal Libano. / Àlzati, vento del settentrione, vieni, / vieni vento del meridione, / soffia nel mio giardino, / si effondano i suoi aromi» (4,15-16). Nei suoi aspetti contrastanti, il giardino offre agli amanti una parabola del loro amore che tiene insieme il recinto del mistero personale e l’apertura dell’essere alla relazione sponsale.

Così i germogli potranno fiorire e produrre frutti maturi (cf. 1,3; 4, 13.16; 7,9.14). Il giardino diventa ora un frutteto e una vigna, il luogo di una meraviglia che sorprende anche gli innamorati e li spinge a programmare un nuovo appuntamento d’amore per vedere il miracolo dei germogli: «Vedremo se germoglia la vite, / se le gemme si schiudono, / se fioriscono i melograni: / là ti darò il mio amore!» (7,13). Il giardino offre così il prodigio dell’inizio e l’irresistibile gratuità delle gemme che sbocciano, e consente di rallentare la corsa del tempo per permettere la giusta maturazione dei frutti. 

Il giardino pasquale: l’amore smarrito, cercato e ritrovato 

Si passa così al terzo giardino: dall’amore come estasi e tormento, all’amore smarrito, cercato e ritrovato. Il rapporto d’amore che univa la coppia nel giardino degli innamorati del Cantico dei Cantici riceve una sorprendente traduzione cristologica nella scena dell’apparizione di Cristo risorto a Maria Maddalena nel Vangelo di Giovanni. Gli amanti del Cantico e quelli del giardino pasquale si fondono e danno forma umana e divina al simbolo e all’allegoria. Ora l’elemento più fortemente antropologico si rivela secondo la melodia cristologica e viene celebrato secondo il tono evangelico.

La scena ha per contesto un giardino enigmatico, quello della tomba di Gesù. L’evangelista, infatti, scrive: «Nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora posto. Là dunque […] posero Gesù» (Gv 19,41-42). Questo giardino, paradossalmente segno dell’assenza e della distanza, diventa il luogo della presenza e della vicinanza. È un vero miracolo di rinascita e di risurrezione dell’amore! Proprio nel giardino dove è situata la tomba, misteriosamente, ma realmente è possibile l’incontro e il riconoscimento tra lo sposo e la sposa. L’amore che sembrava sopito e addormentato, si desta dal sonno e risorge con forza travolgente e irresistibile.

Verso questo giardino si affretta ad andare Maria di Màgdala, il primo giorno della settimana, «al mattino, quando era ancora buio» (Gv 20,1). La donna ha fretta. Non riesce a dormire. Non vuole stare lontano dall’amato. La scoperta della tomba vuota la getta nello sgomento. Agli angeli che le chiedono: «Donna, perché piangi?», lei risponde: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto» (v. 13). Poi si gira e vede Gesù che, a sua volta, le chiede: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?». Scambiandolo per il giardiniere, lei risponde: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo» (v. 15). È il giardino delle lacrime: le lacrime per lo smarrimento dell’amato, per l’affannosa ricerca del suo volto, per il riconoscimento e il ritrovamento dell’amato. 

Si ripresenta la stessa scena del Cantico dei Cantici, quando la sposa cammina ansiosamente alla ricerca dell’amato perduto: «Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato / l’amore dell’anima mia; / l’ho cercato, ma non l’ho trovato. / Mi alzerò e farò il giro della città / per le strade e per le piazze; / voglio cercare l’amore dell’anima mia. / L’ho cercato, ma non l’ho trovato. / Mi hanno incontrata le guardie che fanno la ronda in città: / “Avete visto l’amore dell’anima mia?”. / Da poco le avevo oltrepassate, / quando trovai l’amore dell’anima mia. / Lo strinsi forte e non lo lascerò» (Ct 3,1-4). 

Il testo evangelico richiama la scena del Cantico e questo, a sua volta, allude al giardino delle origini (cf. Gen 2–3), nel quale si è consumata la perdita dell’amore e la cacciata dal giardino. C’è come una sorta di incastro tra le rispettive immagini. Un giardino richiama l’altro e tutti si fondono insieme. L’amore smarrito in un giardino, viene ritrovato ancora una volta nel giardino. 

La cosa più notevole è che la riscoperta dell’amore avviene attraverso il dialogo tra l’uomo e la donna. Non è necessario fare un lungo discorso. Basta solo una parola, una parola personale. Anzi basta solo pronunciare vicendevolmente il nome dell’amato e dell’amata: “Maria”, dice Gesù; “Maestro”, risponde la Maddalena! Anche per voi sarà così. Basterà soltanto che tu, Maxime, dica: “Viola” e sentire Viola chiamarti: “Maxime”. Basterà invocare l’altro per far scattare la scintilla dell’amore, che certo può essere sopito, ma non perduto. L’amore non è un sentimento, ma una persona! L’amore vero è tutto racchiuso in un nome. Il nome della sposa e il nome dello sposo. Questo è il mistero grande dell’amore che rinasce al richiamo del nome dell’amato e dell’amata. Talvolta, basta evocarlo solo con il silenzio!

Cara Viola e caro Maxime, proteggete e coltivate vicendevolmente l’amore nel vostro giardino. Entrate in esso. Sedetevi ad accedere la fiamma, quando sta per spegnersi. Disegnate nel cuore il volto dell’altro e preparategli il posto per la sua venuta. Scambiatevi lo stesso messaggio: «Viola, vieni nel mio giardino»; «Vieni anche tu, Maxime, nel mio giardino». Fate della vostra famiglia una Chiesa domestica, sapendo che nella Chiesa «tutto appartiene all’amore, vive nell’amore, si fa per amore e viene dall’amore»[3]. Fortificati dalla fede ripetere all’unisono: «Camminiamo per sempre nel giardino del nostro amore».  

Il giardino divenuto città celeste: l’amore eterno e intramontabile

Per sempre! Perché se l’amore è eterno, non termina in questa vita, ma continua nel tempo e si trasfigura nella Gerusalemme celeste. Nella versione mistica, il poeta persiano Rumi (1207-73) scrive: «L’amore è un albero i cui rami raggiungono l’eternità e le cui radici crescono nell’eternità, e quindi il tronco non è da nessuna parte!»[4]. L’eternità dell’amore è caratterizzata dalla sua fonte protologica che si concretizza nella sua qualità kairologica e, infine, si esprime nella sua ascendenza escatologica. L’amore che era prima del tempo, si realizza nel tempo e si manifesta pienamente di là del tempo. L’amore eterno viene nel tempo e si consuma al di fuori del tempo.   

Cara Viola e caro Maxime, non basta celebrare le nozze in questa Chiesa, occorre celebrarle in paradiso, nella città-giardino, la città della gioia senza fine e dell’amore immortale. È questo il luogo dove l’amore non si scolorisce, non svanisce e non si dilegua. Al contrario, come l’araba fenice, rinasce dalle sue ceneri, rivive e rinverdisce sempre, irrorato dall’acqua viva del fiume dell’eterno amore di Dio. «In mezzo alla piazza della città, – scrive l’autore dell’Apocalisse – da una parte e dall’altra del fiume, si trova un albero di vita che dà frutti dodici volte all’anno, portando frutto ogni mese; le foglie dell’albero servono a guarire le nazioni» (Ap 22,2).

Nella città celeste, c’è una luce che non tramonta: simbolo dell’amore che non si spegne e non si consuma. In essa si ode un grido: «Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”» (Ap 22,17). E l’amato, che è anche l’amore, l’amore eterno, risponderà: «Sì, verrò presto!» (Ap 22,20). Le nozze terrene si trasformeranno nelle nozze celesti. Il volo che oggi incomincia non avrà termine. L’amore sarà assicurato per sempre. E quando, nel teatro del mondo, calerà il sipario, la vostra gioia scavalcherà il tempo e si riempirà di eternità. 

Auguri da tutti noi, Viola e Maxime!


[1] Il giardino riappare ripetutamente anche nell’immaginario dei profeti: dal profeta Isaia (cf. Is 58, 11; 61,11), al profeta Geremia (cf.  Ger 31,12) e soprattutto al profeta Osea dove l’amore sponsale è associato alle metafore vegetali. In un passo del profeta, infatti, il Signore stesso esclama: «Sarò come rugiada per Israele; fiorirà come un giglio e metterà radici come un albero del Libano, si spanderanno i suoi germogli e avrà la bellezza dell’olivo e la fragranza del Libano» (Os 14,6-7). Si comprende così che nel giardino dell’amore, Dio è la forza e l’energia vitale, la «rugiada», la misteriosa fonte che rigenera continuamente l’amore (cf. Os 14,6; Gen 27,28; Dt 33,13; Sal 133,3).

[2] Cf. in particolare L. Alonso Schökel, I nomi dell’amore. Simboli matrimoniali nella Bibbia, Casale Monferrato (Al), Piemme, 1997.

[3] Francesco di Sales, Trattato dell’amore di Dio, Paoline, Milano 1989, p. 80.

[4] C. Barks, Rumi: The Book of Love. Poems of Ecstasy and Longing, New York, HarperCollins, 2003, p. 121.

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