San Vincenzo martire, la forza nella debolezza – Diocesi Ugento Santa Maria di Leuca

 
 

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Omelia nella Messa in onore di san Vincenzo, dicono e martire
patrono della città di Ugento e della Diocesi
chiesa Cattedrale – Ugento, 22 gennaio 2023

Ill.me Autorità civili e militari,           
cari sacerdoti, 
cari fratelli e sorelle,
la ricorrenza del patrono della diocesi, san Vicenzo diacono e martire, è un invito a discernere i segni dei tempi alla luce della sua testimonianza di fede. 

Questa mia esortazione prende spunto da una frase pronunciata da sant’Agostino in una omelia sul martirio di san Vincenzo: «Nelle parole aveva la fiducia, – scrive il santo Vescovo di Ippona – nel martirio aveva la pazienza»[1]. Le armi con cui san Vincenzo ha vinto la bella battaglia della fede (cf. 2Tm 4, 7) sono state la fiducia nella grazia di Cristo e pazienza nella sofferenza. Nel martirio di san Vincenzo si coniugano la debolezza della natura umana e la forza della fede. Il martire è un “atleta” che lotta per testimoniare la fede. «Più debole è l’atleta – scrive san Giovanni Crisostomo – più gloriosa è la vittoria». Questo modello di vita è di grande attualità: dobbiamo anche noi riscoprire la forza che si nasconde nella debolezza.

La forza della debolezza

San Paolo afferma questo paradosso in modo lapidario: «Quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10). Secondo san Giovanni Crisostomo, «questa frase è chiaramente divina. Infatti come poteva venire in mente a dodici poveri uomini, e per di più ignoranti, che avevano passato la loro vita sui laghi e sui fiumi, di intraprendere una simile opera? Essi forse mai erano entrati in una città o in una piazza. E allora come potevano pensare di affrontare tutta la terra? Che fossero paurosi e pusillanimi l’afferma chiaramente chi scrisse la loro vita senza dissimulare nulla e senza nascondere i loro difetti, ciò che costituisce la miglior garanzia di veridicità di quanto asserisce[2]

L’apostolo Paolo sembra far riferimento a una sua esperienza concreta, esistenziale. Evoca una situazione di debolezza fisica o psicologica, forse una infermità o uno stato d’animo provato. Non si è vergognato di ricordare ai cristiani di Corinto la situazione di debolezza che ha caratterizzato la sua opera di evangelizzazione in mezzo a loro. Ma riflettendo su tale situazione egli vi coglie qualcosa di sorprendente: l’energia del Risorto. L’apostolo ritiene di essere “forte” nella sua debolezza in quanto coinvolto nella dinamica vittoriosa del Crocifisso risorto. Ha la certezza che «né morte, né vita, né angeli, né principati, né presente, né avvenire, né potenze, né altezza, né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separaci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù nostro Signore» (Rm 8,38-39).

La debolezza, che diviene occasione di fortezza d’animo, non è del tutto estranea all’esperienza umana[3]. Nel nostro tempo, in modo particolare nel periodo della pandemia, abbiamo sperimentato la fragilità personale non solo sul piano fisico, ma anche su quello psicologico, educativo e relazionale. Le condizioni determinate dalla crisi economica e dalla guerra in Ucraina hanno accresciuto la fragilità sociale. Queste forme di fragilità si sono aggiunte a quella ambientale e a quella istituzionale. 

La fragilità, un problema o una risorsa? 

Il termine “fragile” (dal latino “frangere”) si riferisce a una realtà materiale che si può spezzare e rompere, ma può anche indicare una dimensione emozionale, un equilibrio personale che si può frantumare. Possono andare in frantumi le cose, i beni materiali, ma anche le emozioni, le ragioni di vita, le speranze e le inquietudini, le tristezze, gli slanci del cuore. La fragilità, pertanto, nasconde anche una certa dimensione positiva. Di solito, le cose fragili sono anche realtà belle ed eleganti come un bambino appena nato, un pregiato vetro di Murano o un cristallo di Boemia, un fiore da poco sbocciato. 

Nella “fragilità umana” possiamo distinguere le precarietà esistenziali e le debolezze psico-fisiche individuali. Le prime si riferiscono alla stessa natura dell’uomo, al suo rapporto con la vita. C’è una fragilità essenziale in quanto intrinseca alla natura umana. Come ricorda il salmo 90, l’uomo è sottoposto alla caducità, alla sofferenza, all’invecchiamento, al cammino inevitabile e irreversibile verso la morte. È nota espressione di Blaise Pascal: «L’uomo non è che una canna, la più debole della natura, ma è una canna che pensa. Non serve che l’universo intero si armi per schiacciarlo; un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe comunque più nobile di ciò che l’uccide perché sa di morire e conosce il potere che l’universo ha su di lui, mentre l’universo non ne sa nulla»[4].

Esiste, però, un’altra fragilità di carattere psicologico. Domina in questo secondo caso la storica contrapposizione tra fragilità e forza.  Vi è il modello dell’uomo” forte”, quello che “non deve chiedere mai” caratterizzato dalla solidità, dalla resistenza fisica, dalla stabilità morale, dalla capacità di sopire le paure, dalla forza competitiva e di governo. Il concetto è sintetizzato nel motto frangar non flectar, mi spezzo, ma non mi piego. 

Al contrario, l’uomo “fragile” sembra segnato da caratteristiche fisiche, psicologiche e caratteriali, che lo predispongono ai cedimenti fisici, alle malattie, la debolezza morale, la timidezza, la paura.  Questa fragilità, talvolta, si combina con la capacità di emozione, con la percettività sensibile, con la flessibilità che consente di mantenere gli equilibri fra le varie componenti fisiche e psichiche. Si afferma così che “l’uomo è stabile perché labile” secondo il principio: flectar non frangar, mi piego, ma non mi spezzo. Entra in gioco il concetto di resilienza, cioè di flessibilità, elasticità, plasticità che genera capacità di adattamento e quindi di “disponibilità” al cambiamento. 

L’ossimoro “fragile”, ma “resistente” è tale solo in apparenza. È infatti più probabile la distruzione di un sistema robusto e rigido piuttosto che non l’estinzione di un sistema la cui fragilità si combina con una certa adattabilità che si converte in una maggiore stabilità e resistenza. La consapevolezza della fragilità consente all’uomo la corretta misura di se stesso, della propria finitezza e la comprensione dei limiti degli altri. A ragione Vittorino Andreoli afferma che «la fragilità rifà l’uomo» perché gli consente di prendere coscienza dei propri limiti, dei propri difetti, delle proprie miserie e dunque di dirigere i propri comportamenti sotto la guida della più importante delle virtù umane, che è l’umiltà.

La consapevolezza di essere fragili aiuta a costruire un mondo migliore

Nel nostro tempo sembra che la fragilità sia quasi una moneta fuori corso, una lingua scomparsa, un inutile termometro di debolezza, mentre è di moda la forza, la competizione sfrenata.

Le patologie e le sfide del nostro tempo trovano una matrice comune nella tendenza alla dismisura, alla illimitatezza, radice di quel fenomeno moltiplicatore di competitività e di violenza che è il capitalismo speculativo e il neoliberalismo. 

Lo aveva già intuito Hans Jonas quando, nella seconda metà del Novecento, denunciava il paradosso di un’umanità divenuta vittima del suo stesso potere, perché accecata dalla hybris prometeica, e pericolosamente avviata verso la “perdita del mondo”. Eppure, solo ora la crisi ecologica, sepolta per decenni sotto strati ripetuti di indifferenza sembra esplodere, manifestandosi inevitabilmente in fenomeni estremi e forse irreparabili.

«Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la sopravvivenza della vita umana sulla Terra» era l’imperativo di Jonas. È dunque necessario riscoprire la virtù della fragilità, intesa come resilienza[5]. Parola modernissima in quanto esalta una virtù che appartiene a tutti, insita nella natura umana, anche quando proviamo a dissimularla. Tutti siamo fragili, ma la vera forza matura nella debolezza, sempre che questa non si trasformi in rassegnazione o accidia.

In tempi nei quali abbiamo bisogno non solo di condividere, ma anche di mostrare la gentilezza, la responsabilità nei confronti degli altri, la fragilità aiuta a scoprire davvero chi siamo noi e chi sono gli altri[6]. «Ci sono uomini troppo fragili per andare in frantumi» diceva Ludwig Wittgenstein. La forza della fragilità diventa quasi una corazza che rende l’uomo talmente solido da non rischiare di finire in frantumi sotto i colpi delle difficoltà e delle sconfitte della vita. Una società autenticamente convivialista non potrà nascere se non dal prevalere delle passioni empatiche e dalla capacità di darsi norme, strutture e istituzioni atte a promuoverle e a coltivarle, nella consapevolezza della fragilità delle nostre conquiste. In definitiva, dall’essere e dal costituirsi come una vera comunità di uomini che si riconoscono fratelli.

La comunità come antidoto ai mali del nostro tempo e risorsa di cambiamento 

Occorre la comunità. Essa è la forma aggregativa più antica della storia. Nel nostro tempo è nuovamente tornata di moda in quanto antidoto all’individualismo della società moderna e forza propulsiva per costruire un futuro migliore. La comunità, infatti, richiamando alcuni valori fondamentali quali la cooperazione, l’intelligenza affettiva e la libertà associativa, supera la logica competitiva, dogma tipico del nostro agire odierno, che genera ansia, frustrazione e un continuo senso di inadeguatezza. Positivamente, la comunità esprime valori invocati, cercati, agognati in quanto rende possibile praticare la reciprocità e vivere in un ambiente fraterno dove è concesso commettere errori senza per questo essere esclusi e dove le relazioni interpersonali non sono richieste continue di prestazioni. 

La stessa origine della parola latina communitas oscilla tra due etimologie diverse ed opposte: cum-munus, cioè dono comune, e cum-moeni: mura comuni. La prima fa leva sull’idea della comunanza del dono, su una cultura che ha obiettivo di formare persone che rimangano libere e capaci si sognare. La seconda si fonda sulla restrizione dei recinti e sulla forza dell’imposizione. L’identificazione in un progetto comune, invece, genera una spontanea rete di relazioni e di vicinanze, che non può essere scalfita dall’esterno. Si tratta di un collante molto più efficace di qualsiasi adesione formale o regola imposta dall’alto. La comunità aiuta così a superare tendenze conservative e schemi rigidi di governo: un modo di pensare e agire in libertà, che favorisce la diversità e la realizzazione individuale, senza compromettere il benessere comune.

Chiunque ha una responsabilità a reggere una comunità familiare, sociale, professionale, imprenditoriale, ecclesiale dovrebbe gioire quando vede persone spiccare il volo e cercare di raggiungere i propri progetti. La comunità di Gesù era una comunità mobile, fondata sulla sequela, sulla scelta di camminare dietro il Maestro. Suo modello era il cammino esodale, fatto della “mobilità delle tende”. Fondamentale era saper individuare l’essenziale e distinguerlo dal superfluo.

La vera forza della comunità consiste nel fatto che il tutto è molto di più della semplice somma delle parti. Il valore si ha nell’unione e nella convinzione che non c’è benessere se non è per tutti. Nella comunità la partecipazione si pratica con la presenza e con l’impegno, e la progettualità nasce dalla cooperazione e dal confronto. L’organizzazione è fluida e si modifica a seconda delle esigenze e dell’apporto che i singoli possono offrire in un dato momento.

Due sentimenti dovrebbero accompagnare il cammino delle nostre comunità: la compassione e l’amicizia sociale. La compassione ci rende responsabili e attenti alle gioie e alle sofferenze altrui facendole anche un po’ nostre[7]. L’amicizia sociale a sua volta è capace di andare oltre l’affinità nazionale, sociale, economica e culturale. Aiuta a non chiudersi nel proprio piccolo angolo di benessere, ma ad agire in vista di un bene più grande.

Per rinsaldare il senso di comunità e arricchirsi reciprocamente occorre far leva sulla metodologia del dialogo e del confronto libero. Bisogna sentirsi parte viva di una comunità, per cogliere le sfide e le opportunità del nostro tempo. L’agire comunitario, allora, infonderà la forza di fronteggiare insieme le difficoltà, di mettersi in gioco per superarle, di lottare per cambiare una situazione ingiusta, di creare narrazioni alternative. Pensiamo al futuro a partire dalla prospettiva di un nuovo umanesimo che rimetta al centro la solidarietà e la fraternità come valore irrinunciabile del nostro esistere e del nostro agire. 

Il Capo di leuca è un territorio costituito da piccoli centri. Ciò rappresenta una chance da valorizzare. Se, infatti, lo sviluppo urbano e tecnologico spesso si accompagna a una pericolosa disarticolazione molecolare delle componenti fondamentali della società e le città più grandi rischiano di diventare dei contenitori in cui coesistono energie vitali insieme a derive di isolamento, i nostri piccoli centri ci riportano a una dimensione più umana dell’esistenza e, senza rinnegare i valori positivi della modernità, ci trasmettono il calore di una dimensione sociale più ristretta e il valore positivo di un tessuto sociale più coeso, aspetti determinanti per il benessere delle persone e delle famiglie. 

Siamo pertanto chiamati a sviluppare uno spirito di appartenenza e di comunità e una forma di spontaneo e intenzionale ricompattamento sociale nel quale le tradizioni non sono dimenticate né rinnegate, ma nuovamente riprese e rivitalizzate affinché i giovani sentono ancora il legame con la famiglia di appartenenza, anche se trascorrono molti mesi dell’anno lontano da casa per studio o lavoro, gli anziani non si sentono abbandonati. Occorre che tutti, in campo politico, sociale ed ecclesiale sviluppiamo un rapporto diretto e uno scambio quotidiano creando un’armonica e fruttuosa collaborazione tra la comunità ecclesiale e quella civile per l’edificazione del bene comune.


[1] Agostino, Discorso, 276, 1. 

[2] G. Crisostomo, Omelie sulla prima lettera ai Corinzi, 4, 3. 4.

[3] Cf. G. Cucci, La forza dalla debolezza. Aspetti psicologici della vita spirituale, Apostolato della preghiera, 2018.

[4] B. Pascal, Pensieri, 251.

[5] Cf. L. Bruni, La comunità fragile. Perché occorre cambiare molto per non perdere troppo tempo, Città Nuova, Roma 2022.

[6] Cf. R. Gramiccia, Elogio della fragilità, Mimemis, Milano 2016.

[7] Gaudium et spes, 1.

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