Tenere lo sguardo fisso su Gesù Bambino – Diocesi Ugento Santa Maria di Leuca

 
 

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Omelia nella Messa della Notte di Natale
Chiesa Cattedrale, Ugento 24 dicembre 2023.

Cari fratelli e sorelle,
il Natale è un evento storico e un mistero della fede. Si fa memoria della nascita di Cristo al fine di meditare il mistero del Verbo fatto carne. I fatti storici si narrano, i misteri si contemplano. La verità storica mette al bando ogni affabulazione mitica, la contemplazione dona un nuovo afflato di vita e una rinnovata sorgente di luce, anche se è grande la sproporzione tra la povertà del segno (un bambino giace nella mangiatoia) e lo splendore della visione celebrata dalla voce degli angeli che lodano Dio.

L’incarnazione del Verbo è la manifestazione visibile del mistero invisibile. Certo il Dio «invisibile» (Col1,15, 1Tim 1,17; Eb 11,27) non può essere racchiuso in un’immagine visibile. Tuttavia, nel Figlio, Dio si rende accessibile all’uomo. La tradizione giovannea, in modo particolare, sottolinea l’importanza del vedere, con gli occhi della fede[1], il mistero di Dio nella santa umanità di Cristo (cfr. Gv 1,14; 1,50-51; 12,21; 14,9; 20,29; 1Gv 1,1-3). Se la rivelazione attraverso il creato dà la vita a tutti gli esseri che si trovano sulla terra, molto più la rivelazione per mezzo del Verbo è causa di vita per coloro che vedono Dio[2].. Dobbiamo camminare sulla terra senza distogliere gli occhi dal cielo perché non ci raggiunga il rimprovero rivolto ad Israele: «Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto nessuno sa sollevare lo sguardo» (Os 11,7). La beatitudine nasce dallo sguardo contemplativo: «Beati i vostri occhi perché vedono» (Mt 13,16). 

Tenere fisso lo sguardo su Gesù Bambino 

Il silenzio della notte e il cielo illuminato dalla stella rende ancora più suggestiva la rappresentazione della scena evangelica e infonde una gioia più intima alla contemplazione del mistero: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria» (Gv 1,14). Era questo il motivo che indusse san Francesco nel 1223, ottocento anni fa, a realizzare a Greccio il primo presepe della storia. Egli voleva «vedere con gli occhi del corpo» la scena commovente nella quale «risplende la semplicità evangelica, si loda la povertà, si raccomanda l’umiltà. Greccio è divenuto come una nuova Betlemme»[3]

La liturgia che celebriamo a Natale non è soltanto un rito, ma è quasi la ripresentazione della scena narrata dai Vangeli, la manifestazione della nuova Betlemme, del Cristo che nasce nel nostro cuore. Ci sono di aiuto le tre collette delle Messe di Natale. Prendendoci per mano, ci invitano a compiere il nostro ingresso nel mistero secondo una precisa progressione: l’evento dell’incarnazione del Verbo sprigiona una tale luce (Messa della notte) che investe il nostro agire (Messa dell’aurora) perché possiamo partecipare alla stessa vita di Dio (Messa del giorno).

In questa Messa della notte di Natale, prima di ogni altra cosa, siamo invitati a uno sguardo contemplativo, reso possibile dallo svelamento del Verbo di Dio nella carne umana. Nell’umanità del Figlio si può vedere il volto misterioso e l’infinito amore del Padre. D’ora in poi, siamo chiamati a tenere fisso lo sguardo su Gesù (cfr. Lc 4,20), come suggerisce san Giovanni della Croce quando mette in bocca a Dio Padre queste parole: «Fissa lo sguardo in lui solo e vi troverai anche più di quanto chiedi e desideri: in lui ti ho detto e rivelato tutto»[4].

Il supremo comandamento è fissare lo sguardo sulla persona di Gesù 

Fissare lo sguardo sul Verbo incarnato è il comandamento supremo a cui dobbiamo attenerci. Quando questo avviene, per un intervallo indeterminato di tempo, il movimento si ferma, non scorre più, rimane come sospeso e quasi si arresta. Il resto del mondo scompare dalla scena, e improvvisamente si dilegua. Rimane solo lui, il Bambino collocato nella mangiatoia, con la soave grandezza del suo mistero, le cui porte si aprono solo dall’interno e il cui svelamento non annulla la sua ineffabilità. Per la sua eloquente analogia con l’amore si parla giustamente di un mistero d’amore. E come nell’amore, l’accresciuta conoscenza chiede un suo continuo approfondimento, così anche per il “Bambino di Betlemme”[5], come soleva chiamarlo san Francesco d’Assisi, la comprensione del suo mistero diviene sempre più coinvolgente e affascinante per chi lo contempla. 

Contemplare significa fisare lo sguardo e dare il primato alla persona di Gesù. È lui stesso il Vangelo. A lui bisogna “attaccare” il proprio cuore. Con lui bisogna instaurare una vera e profonda relazione interpersonale fino ad arrivare alla totale e piena conformazione. Le parole e i gesti, staccati dalla sua persona, diventano solo consigli morali da mettere in pratica senza la grazia necessaria che consente di attuarli realmente. Cristo è la grazia che annuncia e dona la forza per attuare il suo insegnamento. Solo l’amicizia con lui rende forte e stabile la fede e consente che essa si sviluppi e si concretizzi nella carità. Per amare come Gesù bisogna avere fede in lui, bisogna cioè tenere fisso lo sguardo sulla sua persona. L’imitazione scaturisce dalla contemplazione!    

Nel particolare tempo che stiamo vivendo, caratterizzato dalla crisi della fede e dalla sua deriva in una sorta di umanitarismo che svuota il suo contenuto misterico, occorre richiamare le parole pronunciate da Joseph Ratzinger nell’omelia della Messa pro eligendo Romano Pontifice (18 aprile 2005): «“Adulta” – egli diceva – non è una fede che segue le onde della moda e l’ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente radicata nell’amicizia con Cristo. È quest’amicizia che ci apre a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità. Questa fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare il gregge di Cristo. Ed è questa fede – solo la fede – che crea unità e si realizza nella carità. San Paolo ci offre a questo proposito – in contrasto con le continue peripezie di coloro che sono come fanciulli sballottati dalle onde – una bella parola: fare la verità nella carità, come formula fondamentale dell’esistenza cristiana. In Cristo, coincidono verità e carità. Nella misura in cui ci avviciniamo a Cristo, anche nella nostra vita, verità e carità si fondono. La carità senza verità sarebbe cieca; la verità senza carità sarebbe come “un cembalo che tintinna” (1Cor 13, 1)».

Il mistero della natività si mostra al nostro sguardo nella rappresentazione del presepe. Dobbiamo imparare a fissare lo sguardo sul Bambino da tutte le possibili angolazioni. Dall’alto, in quanto è una manifestazione dell’eterno amore tra le tre divine persone, dal basso, considerando la sua dimensione storica, da vicino in quanto evento intimo e famigliare.

Lo sguardo dall’alto 

Il primo sguardo proviene dall’alto, dal cielo ad opera delle tre persone divine e delle schiere angeliche. Da questo punto di vista, il mistero del Natale si svela a partire dalla sua più profonda e impenetrabile interiorità: il suo legame con il mistero della Trinità. È significativo che la tela che si trova nella Chiesa della Confraternita di Barbarano, è divisa in due parti: in basso la scena della nascita di Cristo, in alto la raffigurazione della Trinità, in un tripudio di gioia delle schiere angeliche[6]. Sembra che le tre persone divine e gli angeli siano quasi sopra il palco superiore di un teatro a contemplare la scena della notte di Betlemme. 

Lo sguardo delle tre persone divine

Da sempre le tre persone divine contemplano l’evento storico dell’incarnazione del Verbo e della sua nascita. Il mistero è innanzitutto sotto lo sguardo amante del Padre. Dall’eternità, egli volge i suoi occhi sul Figlio e con la sua voce proclama: «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato» (Sal 2,7). L’avverbio “oggi” si riferisce alla vita intima di Dio: è l’“oggi” del Padre che dall’eternità contempla non solo la generazione eterna del Figlio, ma anche la sua nascita storica. Duplice, afferma san Cirillo di Gerusalemme, «è la generazione: una da Dio Padre, prima del tempo, e l’altra, la nascita umana da una vergine nella pienezza del tempo»[7]. Con un solo atto, il Padre contempla amorevolmente il volto del Figlio di cui si compiace (cfr.  Mt 3,17; 17,5), nell’eternità e nel tempo.

A sua volta, il Figlio, che da sempre è rivolto verso il Padre, vede sé stesso riflesso negli occhi del Padre. Lo sguardo del Padre è lo specchio dove il Figlio vede che il suo volto, che è «irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza» (Eb 1,3). Per questo il suo è uno sguardo obbediente. «Entrando nel mondo, – afferma la Lettera agli Ebrei – Cristo dice: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”» (Eb 10, 5-7). L’obbedienza del Figlio consente agli uomini di vedere la gloria eterna del Padre. Essa, infatti, diventa accessibile solo quando è velata dall’umanità del Figlio. Altrimenti, «a causa dell’eccessiva luce si dissolverebbe ogni carne, a meno che, per disposizione ineffabile di Dio, o la carne si muti in luce per poter vedere la luce, o la luce si muti in carne per essere vista dalla carne»[8].

Il Natale è anche la festa dello sguardo dello Spirito Santo, protagonista silenzioso e nascosto del vicendevole amore tra il Padre e il Figlio e artefice della nascita di Gesù nel grembo benedetto di Maria. Lo Spirito, forza divina generante e generatrice, rende possibile la realizzazione di tutte le fasi del mistero: l’illuminazione e l’adesione di Maria, la decisione di Giuseppe di prenderla in sposa e il riconoscimento che tutto era un’opera della grazia. Nello lo scritto apocrifo Vangelo secondo gli Ebrei, si legge che lo Spirito Santo, posandosi su Gesù, sussurra: «Figlio mio, in tutti i profeti aspettavo te, che tu venissi e io potessi riposare in te. Tu sei il mio riposo»[9]

Lo sguardo degli angeli
Allo sguardo compiaciuto delle tre persone divine fa da contrappunto lo sguardo gioioso degli angeli. Anch’essi, si affacciano dalle finestre del cielo spinti dal desiderio di «fissare lo sguardo» (1Pt 1,10-12) sulla nascita terrena del Verbo eterno. E mentre guardano con stupore questa divina meraviglia, intonano l’inno di lode: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli, e pace in terra agli uomini amati dal Signore» (Lc 2,14). Con il loro gioioso canto, gli angeli esprimono una verità, avanzano una profezia, suggeriscono una proposta.Anzitutto constatano la grandezza, la maestà e lo splendore di Dio, la cui gloria risplende nei cieli e si manifesta sulla terra in Gesù Bambino. Formulano una profezia: ci sarà pace sulla terra, quando gli uomini si lasceranno amare da Dio attraverso suo Figlio. La pace, infatti, non si fonda sugli sforzi degli uomini, ma sulla benedizione e sulla misericordia di Dio. Suggeriscono agli uomini una proposta: mettere Dio al primo posto, al di sopra di tutto, accogliendo il Figlio che si manifesta nella fragile realtà di un bambino bisognoso di tutto.

Sant’Agostino commenta in modo mirabile il canto degli angeli con questa esortazione: «Meditiamo con fede, speranza e carità queste parole divine, queste lodi di Dio, questa gioia angelica, dopo averla accolta con profondo rispetto. Come infatti ora crediamo e speriamo e desideriamo, anche noi saremo gloria a Dio nell’alto dei cieli quando nella risurrezione del corpo spiritualizzato saremo rapiti sulle nubi incontro a Cristo; purché però, ora che siamo sulla terra, ricerchiamo la pace con buona volontà. Nell’alto dei cieli ci sarà la vita perché ivi è la regione dei vivi; ivi sono i giorni buoni, dove il Signore è sempre lo stesso e i suoi anni non verranno meno. Chiunque vuole la vita e desidera vedere i giorni del bene distolga la sua lingua dal male e le sue labbra non pronuncino inganni; si allontani dal male e operi il bene: facendo così sarà un uomo di buona volontà. Cerchi la pace e la persegua perché sarà pace in terra agli uomini di buona volontà»[10].

Lo sguardo dal basso 

Lo sguardo dall’alto si fonde con lo sguardo dal basso. Il mistero della nascita di Cristo, contemplato dall’eternità, viene riconosciuto nella storia in quanto è annunciato dai profeti, venerato dai pastori, adorato dai Magi. 

Lo sguardo lungimirante dei profeti
Il fondamento storico è dato dallo sguardo lungimirante dei profeti. La Prima Lettera di Pietro afferma:«Su questa salvezza indagarono e scrutarono i profeti che profetizzarono sulla grazia a voi destinata cercando di indagare a quale momento o a quali circostanze accennasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che dovevano seguirle.  E fu loro rivelato che non per sé stessi, ma per voi, erano ministri di quelle cose che ora vi sono state annunziate da coloro che vi hanno predicato il vangelo nello Spirito Santo mandato dal cielo» (1Pt 1,10-12). 

I profeti, uomini incandescenti, nella loro umana transumanza respirano il soffio dello Spirito. Con i loro occhi penetranti, vedono dentro e oltre il loro tempo e, da lontano, lacerano l’orizzonte. Con la loro insopportabile lucidità e chiaroveggenza, infastidiscono gli uomini che vivono in modo superficiale. Sintonizzati sulla stessa lunghezza d’onda di Dio, vedono con lungimiranza nel tempo presente ciò che accadrà in futuro. Sono sentinelle che sanno scrutare con passione le contraddizioni e le miserie del tempo e riescono a scorgere i segni dell’amore gratuito e misericordioso di Dio che avanza nella storia. Con il loro annuncio, mantengono viva l’attesa del Messia, ravvivano la fragile fede dei credenti perché siano pronti a riconoscere l’Atteso delle genti, dando vigore alla speranza che egli certamente verrà.

Lo sguardo meravigliato dei pastori
I pastori sono uomini dallo sguardo meravigliato. Apparentemente sembra che dormano un sonno tranquillo. Sanno però che al riposo manca qualcosa che sia capace di stupire e dare gioia alla vita. All’improvviso, nella notte oscura, odono un canto e scorgono il sorgere di una stella, «come quando le stelle nel cielo, intorno alla luna che splende, / appaiono in pieno fulgore, mentre l’aria è senza vento; / e si profilano tutte le rupi e le cime dei colli e le valli; / e uno spazio immenso si apre sotto la volta del cielo, / e si vedono tutte le stelle, e gioisce il pastore in cuor suo»[11].

Svegliati dal sonno tranquillo e dal meritato riposo, si muovono al canto degli angeli attratti dalla luce che intravedono all’orizzonte. Provocati dal dispiegarsi del firmamento, sentono di essere chiamati ad alzarsi per scoprire il segreto della stella e dare forma concreta al canto degli angeli. Riposare è necessario solo per essere più pronti al cammino del giorno dopo. Accogliendo i segnali celesti la vita si desta, ed anche il gesto più piccolo diventa immenso. Giunti sul luogo, rimangono a bocca aperta avvolti da una meraviglia incontenibile. Il Bambino, contemplato nella mangiatoia, li invita a vegliare, a camminare e a riconoscere definitivamente che non «è funesto a chi nasce il dì natale»[12].

Lo sguardo adorante dei Magi
Mentre i pastori ritornano alle loro case dopo avere visto il Bambino, giungono da lontano i Magi, uomini sapienti dal cuore inquieto. Secondo la tradizione, sono i rappresentanti dei tre regni allora conosciuti (Africa, Asia ed Europa) e delle tre età della vita: la giovinezza, l’età adulta e la vecchiaia. All’apparire della stella, si è nuovamente destato il loro desiderio che li ha spinti a guardare oltre, in alto e in grande, per riconoscere che c’è molto di più di quello che si vede, si tocca e si sperimenta. 

Essi sanno che bisogna saper discernere tra le molteplici stelle. Vi sono, infatti, stelle abbaglianti che suscitano emozioni forti, ma che non orientano il cammino. Sono meteore che brillano un po’, ma ben presto scompaiono e il loro bagliore svanisce; stelle cadenti che depistano anziché indicare la meta. La stella del Signore, invece, anche se talvolta sembra dileguarsi, sempre riappare. È una stella mite, prende per mano e accompagna infallibilmente alla meta desiderata. Non promette ricompense materiali, ma garantisce la pace e suscita nel cuore «una grandissima gioia» (Mt 2,10).

I Magi non sono viandanti o esploratori solitari. Camminano insieme, si fidano e si affidano l’uno all’altro. Scrutano insieme i segni e le tracce celesti. Spesso si tratta di piccoli indizi che si rivelano epifanie di bontà e illuminano il sentiero sconosciuto. Non temono gli errori e, anche di fronte a fraintendimenti e malintesi, non desistono dalla loro ricerca. Basta un piccolo segno per riaccendere in loro la fiducia e la speranza. Giunti alla meta, contemplano con i loro occhi il segno che avevano tanto desiderato vedere. Cercavano un re e si ritrovano davanti un bambino tra le braccia della madre, in una stalla. Riconoscono però che era proprio quel semplice e povero bambino l’astro che li aveva accompagnati. Si inginocchiano, adorano e offrono doni. È la conclusione del loro viaggio e del loro desiderio e il pegno di una nuova ripartenza. Ora che hanno visto, possono tornare al loro paese «per un’altra strada» (Mt 2,12).

Lo sguardo da vicino

Il mistero della nascita di Cristo, contemplato dall’alto e riconosciuto nel corso della storia, è guardato con attenzione nell’intimità e nella relazione interpersonale. Questa volta i personaggi esemplari sono Maria e Giuseppe.

Lo sguardo meditativo di Maria
Maria è colei che ha generato Cristo, ma è anche colei che lo custodisce. Lo genera come madre e lo custodisce come arca dell’alleanza e primo tabernacolo vivente. Il suo è uno sguardo meditativo. Ella “tiene insieme” tutto ciò che riguarda suo Figlio. È un grande mistero da scoprire a poco a poco. Il suo non è solo lo sguardo della madre, ma è anche lo sguardo della discepola. Raccoglie ogni singolo elemento, ogni parola, ogni fatto, lo conserva e lo confronta all’interno del tutto, riconoscendo che tutto proviene dalla volontà di Dio. 

Non le basta una prima comprensione superficiale, scende in profondità, si lascia interpellare dagli eventi e li elabora per acquistare quella consapevolezza che solo la fede può garantire. Per lei, tutto ha il valore di un “simbolo” che spinge a cercare il senso recondito, a soppesare, paragonare, confrontare. Come un’abile tessitrice, ella ricama la trama del mistero con fili sottili e, con grande maestria, incastona le tessere del mosaico, cercando di ricostruirne l’insieme. 

Il suo cuore è il luogo del discernimento, del ricordare, del ponderare attentamente le parole e gli eventi, in un esercizio di affettività interiore. Nell’angolo più segreto della sua anima, confronta i testi, i dati e gli eventi e li lascia maturare nella profondità dello spirito. Così san Lorenzo Giustiniani commenta: «Schiudeva verso di sé la porta dei misteri celesti e si colmava di gioia, si arricchiva copiosamente del dono dello Spirito, orientandosi verso Dio, e nel medesimo tempo si conservava nella sua profonda umiltà»[13].

Lo sguardo silenzioso di Giuseppe
Lo sguardo di Giuseppe è avvolto nel silenzio perché, come scrive san Giovanni della Croce, «una parola pronunciò il Padre, e fu suo Figlio ed essa parla sempre in eterno silenzio, e nel silenzio deve essere ascoltata dall’anima»[14]

San Giuseppe è il modello di un silenzio pieno di ascolto, di interiorità e di operosità; un silenzio permeato di contemplazione del mistero di Dio, in atteggiamento di totale disponibilità ai suoi voleri. Il suo silenzio non va confuso con il mutismo, con una sorta di un vuoto interiore. È un silenzio pieno di quella fede che sa orientare il pensiero e guidare l’azione. Il silenzio di Giuseppe, all’unisono con quello di Maria, custodisce la Parola di Dio, conosciuta attraverso le Sacre Scritture, e la confronta continuamente con gli avvenimenti della vita di Gesù. Il suo è un silenzio intessuto di preghiera, di benedizione al Signore, di adorazione della sua santa volontà e di affidamento senza riserve alla sua provvidenza.

Qualcuno ha parlato di Giuseppe come l’uomo dei sette silenzi[15]. Sette, infatti, sono i momenti che hanno scandito la sua esistenza, accompagnata da altrettanti silenzi: il silenzio delle nozze; il silenzio della speciale paternità; il silenzio del Natale; il silenzio nel Tempio; il silenzio dell’esilio; il silenzio di Nazareth; il silenzio della morte. Il suo è stato un “silenzio assoluto” perché, come afferma sant’Agostino, «nella misura in cui cresce in noi la Parola – il Verbo fatto uomo – diminuiscono le parole»[16]. Ha nobilitato la parola perché è stato amante della “parola minore”, quella più delicata rispetto a quella brutale e urlata che ormai siamo abituati ad ascoltare nel nostro tempo, dove spesso domina non soltanto l’aggressività, ma anche la volgarità.

Lo sguardo interiore 

Gesù non è solo oggetto del nostro sguardo, ma è il soggetto che guarda noi e il Padre. A quale apprendistato si è sottoposto il Verbo venendo nel mondo! Egli, scrive sant’Ireno, «pose la sua abitazione tra gli uomini e si fece Figlio dell’uomo, per abituare l’uomo a comprendere Dio e per abituare Dio a mettere la sua dimora nell’uomo secondo la volontà del Padre»[17]. Il suo è lo sguardo del Bambino, del Crocifisso e del Risorto.

Lo sguardo di Gesù Bambino è intenso e trasognato come quello di un infante che vede ogni cosa nella sua originaria bellezza. È un vedere in profondità il mondo e la storia umana secondo il disegno eterno del Padre, per discernere il suo valore e il suo destino. 

Dall’alto della croce, il Crocifisso ci raggiunge con il suo sguardo compassionevole[18]. I suoi occhi sono finestre aperte per scrutare la profondità del nostro cuore. Quando ormai la voce ha perso il suo suono, lo sguardo crea un ponte, una comunicazione, una relazione, una dolce violenza d’amore. Lo sguardo del Crocifisso non si limita a constatare, ma riplasma la vita, crea una novità, fa iniziare una storia, apre l’orizzonte della risposta perché ogni uomo possa trovare in lui il suo punto di approdo, il suo ultimo orizzonte, la sua più intima e profonda gioia.  

Dopo la sua risurrezione, il Risorto si «fa vedere» (ofthê) e si fa riconoscere. Siamo tutti davanti al suo sguardo meraviglioso che non indaga, ma accarezza con tenerezza di madre. È la potenza dell’amore che si manifesta attraverso quello sguardo. Andiamo avanti nella vita nella certezza che lui ci guarda e attende di essere ricambiato. L’amore, ricevuto e donato, è tutto in questo sguardo, che segna la vita e apre le porte dell’eternità. La persona che si lascia guadare è spinta ad abbandonare tutto e a seguirlo. 

Cari fratelli e sorelle, fissare lo sguardo su Gesù è il messaggio di questa notte di Natale, Questo messaggio rimane valido per tutta la nostra vita. Siamo, infatti, chiamati a correre «con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento» (Eb 12, 1-2). Buon Natale.


[1] Cfr. Agostino, Lettera 147 sulla visione di Dio, 1-23.

[2] Ivi, 4, 20, 5-7

[3] Tommaso da Celano, Vita prima, XXX, 84-85; FF 468-469.

[4] Giovanni della Croce, Salita al monte Carmelo, lib.2, cap.22.

[5] «Spesso, quando voleva nominare Cristo Gesù, infervorato di amore celeste lo chiamava “il Bambino di Betlemme”, e quel nome “Betlemme” lo pronunciava riempiendosi la bocca di voce e ancor più di tenero affetto, producendo un suono come belato di pecora. E ogni volta che diceva “Bambino di Betlemme” o “Gesù”, passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole», Tommaso da Celano, Vita prima, XXX, 86, FF 470.

[6] La cappella e tela, dedicata della Santissima Trinità, furono volute dai baroni Capece e possono essere datate nei primi anni della seconda metà del ‘500. La grande tela rappresenta i due misteri principali della fede: unità e Trinità di Dio; incarnazione, passione e morte di Gesù Cristo. L’impostazione del quadro rispecchia le raffigurazioni di quel tempo (presenti anche negli affreschi della Chiesa di Santa Maria degli Angeli in Presicce): l’offerente in basso a pregare, in alto Gesù che siede alla destra del Padre con in mano la croce e la Natività dipinta non all’interno di una grotta, ma sullo sfondo architettonico di un tempio crollato, a indicare che con la nascita di Gesù sono terminate le religioni pagane. Si può notare che il volto di Maria rassomiglia a quello della Madonna di Leuca, un contadino offre un paniere pieno di uova, l’artista forse si è dipinto dietro l’arco che osserva la scena.

[7] Cirillo di Gerusalemme, Catechesi, 15, 1.

[8] Ps. Clementine, Hom. XVII, 16.

[9] Vangelo degli ebrei, 5 in M. Craveri, I Vangeli apocrifi, Einaudi, Torino 201717, p. 276.

[10] Agostino, Discorso 193 Natale del Signore, 1.

[11] Omero, Iliade, VIII, 555-560.

[12] G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante, 140.

[13] L. Giustiniani, Sermone 8, nella festa della Purificazione della B.V. Maria, Opera, 2, Venezia 1751, 38-39[13].

[14] Giovanni della Croce, Dichos de luz y amor, BAC, Madrid, 417, n. 99.

[15] Cfr. Z. Zuffetti, L’uomo dei sette silenziÀncora Editrice, Roma 2012.

[16] Agostino, Discorso 288, 5.

[17] Ireneo, Contro le eresie, 3, 20, 3.

[18] Cfr. A. M. Cànopi, Sguardo di Gesù. Lectio divina su alcuni brani del Vangelo, Edizioni Paoline, Roma, 2010.

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