Vivere sempre (oltre Natale) «come se Dio ci fosse» – Diocesi Ugento Santa Maria di Leuca

 
 

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Articolo del Vescovo apparso su “Nuovo Quotidiano di Puglia – Lecce”
giovedì, 21 dicembre 2023, pp. 1 e 27.

Il Natale viene ogni anno con tutta la sua magia: festa di luci, stelle luminose, alberi addobbati, canti struggenti, presepi viventi, cortei dei magi. Certamente, i segni esterni sono belli. L’importante è che non distolgano dall’essenziale, ma aiutino a vivere il Natale nel suo senso più vero, suscitando una gioia non superficiale, ma profonda e duratura. 

Immancabile è lo scambio di regali; una usanza che appartiene da lungo tempo alle nostre società, ma che il nostro vivere sociale spesso ha trasformato da un elemento di coesione in un semplice esercizio di consumo. Dono e regalo non sono sinonimi. Il regalo è spesso legato esclusivamente ad una ricorrenza per offrire ad altri una cosa ritenuta utile e gradita. Soggiace alla logica del «do ut des», all’offerta di qualcosa aspettando il contraccambio. Il dono, invece, coniuga insieme gratuità, gratitudine e grazia. Richiama una realtà immeritata, ed esprime una fecondità foriera di altri doni. Trae la sua origine dall’amore e vive nell’incontro tra le persone. Non si fa un dono perché è Natale o il compleanno. Si fa un dono perché si ama qualcuno e non si desidera ricevere nulla in cambio. Volesse il cielo che, nella nostra società consumistica, la pratica del dono diventasse regola di vita.

Quali sono allora i doni di Natale? Il dono più grande è la certezza della presenza di Dio in mezzo a noi. Il Natale annuncia la prossimità di Dio, la sua vicinanza, la sua compassione, la sua tenerezza. Il Figlio di Dio si incarna per essere vicino ad ogni uomo: nelle gioie e nei successi, ma soprattutto nella fatica, nelle sofferenze, nei drammi. Si fa vicino per donare la salvezza come segno di amicizia, comunione e fraternità.

In fondo, il Natale esaudisce il desiderio che da sempre ha pervaso il cuore dell’uomo: poter vedere e incontrare Dio. Facendosi interprete dell’anelito di ogni uomo il profeta Isaia esclama: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi!» (Is 63, 19). La vita dell’uomo non consiste nell’aspettare Godot. Non si può vivere nella vana e inutile attesa che succeda qualcosa, sapendo in anticipo che non accadrà nulla. La vita diventerebbe solo un rischio, se non lo scontro con l’assurdo. 

Anche il grande scrittore e artista Dino Buzzati, simbolo anch’egli dell’attesa di qualcosa che forse non accadrà mai, nella sua poesia “Buon Natale” si domandava: «E se invece venisse per davvero? / Se la preghiera, la letterina, il desiderio / espresso così, più che altro per gioco/ venisse preso sul serio? / Se il regno della fiaba e del mistero / si avverasse? […]. Se la vostra bella sicurezza / nella scienza e nella dea ragione / andasse a carte quarantotto?»

Se, dunque, il sogno di Dio che viene nel mondo si avverasse veramente, allora bisognerebbe capovolgere l’assioma della modernità, “vivere etsi Deus non daretur” (“come se Dio non ci fosse”) e sostituirlo con l’assioma postmoderno “vivere veluti si Deus daretur” (“come se Dio ci fosse”). In tal modo, anche chi è dubbioso e incerto, potrebbe indirizzare la sua vita fondandola sulla presenza di Dio, forse ancora sconosciuto, ma certamente esistente e realmente presente nel mondo.

Ad entrambi, credenti e non credenti, il Natale porta con sé un secondo dono: la speranza. Per il credente si tratterà della speranza che non delude (cfr. Rm 5,5). Essa è fondata sulla certezza che «nulla è impossibile a Dio» (cfr. Gen 18,13; Is 55,10; Ger 32,27; Gb 42,2; Mt 19, 25; Lc 1,37). La bellezza di questa speranza è cantata da Charles Péguy ne Il portico del mistero della seconda virtù: «La speranza è una bambina da nulla. Che è venuta al mondo il giorno di Natale dell’anno scorso. […] La speranza vede quel che non è ancora e che sarà. Ama quel che non è ancora e che sarà.
Nel futuro del tempo e dell’eternità». Chi spera comincia a gustare quel che non possiede ancora, ma che è stato promesso. Tenendo strette le mani sulla speranza, che è come un’ancora saldamente fissata in cielo (cfr. Eb 6, 19), può librarsi in volo senza alcun timore.

La speranza viene in soccorso anche al non credente. Pablo Neruda, nella poesia intitolata “Speranza”, considera questa virtù una divinità che ha la capacità di suscitare sogni anche in una vita disillusa. Il canto della speranza rallegra i cuori tristi e, come un balsamo, rimargina le ferite che sanguinano ancora. «Al tuo soffio divino – canta il poeta – fuggiranno i dolori / quale timido / stormo sprovvisto di nido, / ed un’aurora radiante coi suoi bei colori / annuncerà alle anime che l’amore è venuto».

La virtù della speranza porta con sé il terzo dono di Natale: la pace. Essa non è impossibile, quando nasce dall’amore del prossimo e dalla vigilanza sulle passioni che albergano nel cuore di ogni uomo. Con molto realismo il Concilio Vaticano II afferma: «Gli uomini, in quanto peccatori, sono e saranno sempre sotto la minaccia della guerra fino alla venuta di Cristo; ma in quanto riescono, uniti nell’amore, a vincere il peccato vincono anche la violenza, fino alla realizzazione di quella parola divina “Forgeranno le loro spade in vomeri e le loro lance in falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione e non insegneranno più la guerra (Is 2,4)»[1].

L’avvento di un’era di pace richiede, come condizione preliminare, che si fermi la folle corsa agli armamenti, si elimini il commercio delle armi e si ponga un freno alle fiorenti industrie che le fabbricano. Sarà mai possibile che questo miracolo possa accadere? Per rispondere a questa domanda, lascio la parola all’ingegnere barese Vito Alfieri Fontana. Nel suo libro autobiografico, intitolato “Ero l’umo della guerra”[2], egli racconta il suo passaggio da fabbricante di armi a pacifista e sminatore. Queste le parole conclusive: «Nelle mie due vite ho capito che per fare la guerra basta un’arma, per fare la pace occorre coraggio. Per fare in modo che una guerra duri ci vuole odio autentico e il mondo è così piccolo che tutte le guerre sono guerre civili. E in una guerra civile devi odiare il tuo prossimo. E odiare il prossimo è il più banale, ma potente dei mali». Amare il prossimo, invece, è più difficile, ma è la luce che dà nuovo vigore alla speranza di pace. Buon Natale!     


[1] Gaudium et spes, 78.

[2] V. Alfieri Fontana con A. Sanfrancesco, Ero l’uomo della guerraLa mia vita da fabbricante di armi a sminatore, Laterza Editore, Roma-Bari, 20236, pp. 207-208.

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